Dalle quinte alla scena (Quando lo spettacolo è riuscito)

Dalle quinte alla scena

Quando lo spettacolo è riuscito

Non scrivo il titolo di proposito, poiché quando uno spettacolo ha successo vanno rilevati i motivi. Mi comporterò allo stesso modo in presenza di uno spettacolo totalmente opposto, cioè non riuscito. Se uno spettacolo si conquista il diniego o il consenso incondizionato del pubblico vale lo sforzo di capire e rendere evidenti le motivazioni.

Premetto che la produzione riguarda una performance amatoriale, questo rende ancora più meritevoli gli artefici dello spettacolo.

Certamente il titolo e la sostanza hanno la loro importanza: se è una commedia brillante giocano la facilità e il tono comico nella resa sul palcoscenico, un classico, invece, presenta aspetti decisamente ostici di trama e di parola, oltre che di interpretazione. Il nostro caso è singolare: la commedia è comica, densa di battute brillanti, e insieme è un dramma che tocca la famiglia che vediamo agire. Il plot assume in sé sia la comicità come la seriosità di gente povera in un ambiente squallido. Il protagonista è un uomo in età, semplice e immediato, afflitto da una mania che lo perseguita fin da ragazzo, sembra una malattia cui chinarsi con una dedizione adolescenziale. Il figlio è un cialtrone nato, che non rifiuta mezzo per farsi gli affari suoi senza faticare, compreso il furto.

La moglie del protagonista è una donna bravissima, sensibile quanto succube, madre del ragazzo, e di una giovane sposina che tradisce il marito con un guappo elegante. Il primo impegno è avere a disposizione attori adatti alle parti, o quanto meno credibili e naturali. Questo si realizza perfettamente: persone diverse non avrebbero potuto essere più vere. Gesti, dialoghi, movenze caratterizzanti e ritmo connotano i passaggi che si susseguono rapidi, aderenti a uno scavo psicologico che riassume non solo l’umanità del gruppo familiare, ma pure il clima sociale nel quale è immerso il clan.

Questo è risultato di regia, fatta di particolari minuti e insistiti, provati sino allo sfinimento e calati in un affiatamento corale che segna la padronanza creativa di colui che guida la realizzazione. I personaggi non sono burattini nelle mai del regista, bensì creature sofferenti che non si accorgono di vivere una tragedia vitale, che sfocerà nella morte. Il clan si riunisce per una solennità, e qui vengono a galla i precedenti: corna e tradimenti, gelosia e ingenuità che portano al cozzo inevitabile del parentado: e anche adesso si ride e si spasima. La regia ha tratteggiato lo scontro con movimenti incisivi: l’odio è di casa, il dolore della madre, infinito, la sorpresa di una lettera è il motore dell’inevitabile, che avviene tra le lacrime generali, e conduce al termine della vicenda: il decesso del protagonista.

Nessun tentennamento, tutto puntuale: il guappo è vero lestofante; il marito della figlia è uomo d’onore che non perdona; i vicini sono coro esigente; il figlio pare avere un conato di ravvedimento, ogni attimo è sbalzato e incontra la perfezione. Così bisognava fare, e così è stato fatto.

Roberto Zago, giugno 2017