Totò, un ribelle dinamitardo della lingua

Totò, un ribelle dinamitardo della lingua

di Giacomo Poretti (*) 

Tratto da “Vita & Pensiero” bimestrale di cultura e dibattito dell’Università Cattolica.

Come si può parlare adeguatamente di un Principe? Come si può parlare sensatamente di un Principe che per tutta la vita si è occupato della risata?

E soprattutto ha senso tentare di parlare dell’arte del Principe della risata?

Nel tentare di rispondere a queste domande provo lo stesso imbarazzo di quando mi viene chiesto, a me e ai miei amici Aldo e Giovanni, cosa intendiamo dire con una determinata scena o battuta, come facciamo a pensare una gag, o a farci venire un’idea.

Verrebbe da rispondere che qualunque artista, pittore, scrittore o comico, ha già spiegato tutto con il suo quadro, il suo romanzo o il suo sketch; quello che aveva da dire lo ha già esternato in maniera esaustiva nel lavoro che offre al pubblico, e che addirittura qualsiasi cosa detta a posteriori non solo non aggiungerebbe nulla di significativo, ma addirittura rischierebbe di stravolgere il significato contenuto nel lavoro.

Invece su come nascano le idee e le gag converrebbe rivolgersi al Padreterno.

Un conto è il punto di vista dell’artigiano o dell’artista, altro è quello del pubblico; il pubblico è curioso di sapere come sorga la magia dell’arte, perchè a lui, al pubblico, da questa meravigliosa grazia ed epifania sembra escluso, e allora domanda, si interroga, vuol sapere come accada, sorga, la magia dell’arte. E io, ora, in quanto pubblico mi domando come possa esistere la magia di Totò e provo a balbettare da dove arrivi quella mia fascinazione.

Da bambino quando guardavo Totò avevo la sensazione che in tutti i suoi film avesse la stessa età, che quel signore lì di 60-70 anni avesse mantenuto quel volto sempre uguale per tutta la sua vita.

Quel volto io ho imparato a conoscerlo in televisione, quando all’incirca una volta al mese uno dei suoi 97 film veniva programmato sulle uniche due reti nazionali che erano a disposizione allora: i film di Totò, assiema alle avventure di Don Camillo e Peppone, costituivano una deroga al rigido orario per andare a dormire istituito dai miei genitori; l’indomani mattina sarei stato più sonnacchioso sul banco ma arricchito di invenzioni linguistiche e di gag comiche esilaranti.

Totò mi metteva una certa soggezione, forse perchè aveva una faccia da zio autoritario, forse perchè aveva l’aspetto di un professore universitario o forse semplicemente perchè si presentava quasi sempre in scena ben vestito (quando io ero bambino le persone che indossavano un doppiopetto lo facevano perchè erano ricche o perchè era domenica); ma quale sorpresa appena l’anziano, serissimp, elegantissimo signore sciorinava un gioco di parole, un qui pro quo, un doppio senso, o si avventurava nei suoi sublimi nonsense; dalla soggezione inziale passavo a una gioia liberatoria. Quella gioisa scaturiva dal fatto che la sua comicità, come ho compreso più tardi, opera una discontinuità con il reale indicando più risposte e possibilità rispetto ai cosiddetti comportamenti codificati.

La comicità ci permette, temporaneamente e quasi sempre in maniera innocua, di frantumare regole, deformare il senso, disarticolare la grammatica e la sintassi, e Totò è stato un assaltatore del reale, un guastatore della normalità, un dinamitardo della lingua.

Basterebbe soffermarsi sulla famosa scena della lettera con Peppino De Filippo e su quella dell’onorevole Trombetta con mario Castellani per scoprire l’ultramondo di Totò, per beneficiare di un vuiaggio nel pianeta della surrealtà, per riconoscere che la follia non è solo qualche cosa da temere.

Anche con il corpo Totò partecipa alla scanzonata ribellione della sua comicità: quando meno te lo aspetti da quel distinto signore borghese, aprdon nobile, prende vita un pupazzo, un burattino, un mago che in un sol gesto ridicolizza tutte le norme del bon ton, del galateo e anche dei più basilari e millenari codici di significato dei gesti: pensiamo ancora all’onorevole Trombetta e al dileggio corporale a cui è sottoposto, prima con la minaccia dello starnuto dove il corpo di Totò deborda, si deforma, rischia di deflagrare, e allorquando la minaccia di un cataclisma è al culmine si placa e ricomincia il vilipendio verbale, corporale, sino ad arrivare al culmine della tortura quando Totò infila il dito nel braccio dell’onorevole appoggiato al suo fianco: “Io quando vedo un buco entro dentro”.

Ecco proprio riferendosi a questa paradigmatica scesa ci assale, ne sono sicuro, la tentazione di pensare, e in tantlo faranno, se sia stata scritta così come la vediamo, se sia stata improvvisata, quanta invenzione ci sia di Totò, come abbia fatto il buon Castellani ad assecondare quel fiume in piena, quante volte abiano dovuto rifare la stessa scena.

Non conviene farsi certe domande, perchè, tanto, le eventuali risposte non saranno mai precise, si smaglieranno via via sino a diventare un brandello di leggenda, sarebbe meglio non cercarle proprio quelle risposte, converrebbe accontentarsi della scena stessa e continuare a fruirla nella sua pura, folle, inarrivabile comica bellezza.

Fin da bambino Totò non mi ha fatto solo ridere, mi ha commosso, intenerito, immalinconito, come fanno tutti i grandi comici: Stanlio e Ollio, Chaplin, Buster Keaton, Cervi e Fernandel, Aldo Fabrizi, Peppino De Filippo, Woody Allen …

Perchè Totò assiso sul trono principesco della comicità ci guarda da distanze siderali, eppure è uno di noi, si comporta come noi, è bislacco come noi, è fragile come noi, si intristisce come noi; tutti i suoi personaggi sono una galleria dei nostri difetti e del nostro cuore, della nostra furbizia e arguzia, e della nostra purezza.

Basti pensare al film diretto da Mario Monicelli con il soggetto di Ennio Flaiano, Totò e Carolina: un polizziotto ilare e sgangherato che però ha il coraggio e il cuore di portarsi in casa la persona che tutti vorrebbero condannare e scacciare.

A questo punto mi ero ripromesso di stilare la classifica dei miei film preferiti di Totò, ma ahimè ho già rivelato il vincitore: Totò e Carolina; il film per altro ebbe un penoso intralcio da parte della censura che obbligò a tagli e omissioni molto pesanti: chi l’ha detto che un comico fa solo ridere? Un comico può far arrabbiare, può far paura, addirittura a una macchietta come il poliziotto Caccavallo si può arrivare persino a tappargli la bocca!

Secondo posto a I tartassati, con altri due giganti della comicità: Aldo fabrizi, nei panni di un maresciallo della Finanza, e Louis de Funès, nei panni del commercialista di Totò titolare di un negozio di abiti; per nulla trascurabile la piccola parte affidata alla sora Lella come infermiera, nell’irresistibile scena della puntura al maresciallo Topponi. Questo è uno dei film che renderei obbligatorio a scuola.

Terzo posto a La banda degli onesti: i tre falsari più improbabili della storia del cinema.

Ma si può parlare bene solo di te film del Principe della risata?

E gli altri 94? Mi accorgo che ci vorrebbe tutta una Treccani per divulgare il verbo del De Curtis, e chi ci riesce? Io poi non faccio testo: non ho le qualità del critico, e soprattutto ho un difetto: sono un tifoso di Totò e quindi voglio bene a tutti i personaggi che ha fatto, anche a quelli più esili e mal riusciti, proprio come l’agente Antonio Caccavallo con Carolina.

 

 

(*) Giacomo Poretti, in veste di attore, sceneggiatore e regista, ha costituito con Aldo Baglio e Giovanni Storti un trio comico da molti anni assai apprezzato per gli spettacoli televisivi e teatrali, oltre che per numerosi lavori cinematografici. Ha pubblicato i volumi Alto come un vaso di gerani e Al Paradiso è meglio credere (2015). Collabora, fra l’altro, con “La Stampa” e “Avvenire”.