Cine 4 – CAFE’ SOCIETY

Cine 4 – CAFE’ SOCIETY

giovedì 25 maggio 2017 ore 15.30 e 20,45 – € 5,00 (€ 3,50 under 25 e convenzionati)

FILM D’APERTURA, FUORI CONCORSO, AL 69. FESTIVAL DI CANNES (2016).

Genere: Commedia
Regia: Woody Allen
Interpreti: Jesse Eisenberg (Bobby Dorfman), Kristen Stewart (Vonnie), Jeanni Berlin (Rose Dorfman), Steve Carell (Phil Stern), Blake Lively (Veronica), Parker Posey (Rad Taylor), Corey Stoll (Ben Dorfman), Anna Camp (Candy), Stephen Kunk (Leonard), Sari Lennick (Evelyn Dorfman), Paul Schneider (Steve), Anthony DiMaria (Howard Fox), Tony Sirico (Vito), Bettina Bilger (Gloria).
Nazionalità: Stati Uniti
Distribuzione: Warner Bros Italia
Anno di uscita: 2016
Origine: Stati Uniti (2016)
Soggetto e sceneggiatura: Woody Allen
Fotografia: Vittorio Storaro  (Panoramica/a colori)
Montaggio: Alisa Lepselter
Durata: 96′
Produzione: Gravier Productions.
Giudizio: Consigliabile/problematico **
Tematiche: Famiglia; Gangster; Male; Politica-Società; Storia;

Soggetto:

Il giovane Bobby Dorfman, avvertendo troppo ostacoli nella vita di famiglia a New York, decide per un cambio radicale e tenta la fortuna a Hollywood. Arrivato a Los Angeles, si presenta nell’ufficio dello zio Phil, importante agente cinematografico. Qui trova posto come fattorino ma, soprattutto, conosce la segretaria di Phil, Vonnie…

Valutazione Pastorale:

Ci risiamo, ogni volta che esce un film di Woody Allen, proviamo ad accreditarlo di stanchezza, scarso entusiasmo, cadute di tono. E invece lui fa, come sempre, il contrario. Pronto a sorprenderci, ci porta all’interno di una vicenda leggera e di irrefrenabile brillantezza, ci conduce per mano a fianco dei suoi personaggi, sfiorati dalla grazia del tocco delicato di una camera in continuo equilibrio tra sogno e realtà. “Cafè society” più che proporsi come una storia, è la messa in scena di una fantasia che attraversa di continuo la storia e la cronaca. Quasi una favola sul regno delle favole, una poesia che costeggia il vero di fatti terribili (i gangster, la malavita, la mondanità eccessiva…) e li accosta per ammorbidirli grazie al proprio sguardo moderato e comprensivo, capace di stare dalla parte dei deboli e del perdono. Allen poi non rinuncia ad affrontare quei momenti in cui il suo essere ebreo diventa occasione per un umorismo svelto e affilato, e il confronto con il ‘fine vita’ si fa forte ma non disperato. C’è tutto insomma in questo film, sintesi di una filosofia che non si arrende a considerare il cinema ormai finito ma lo affronta ogni volta come nuovo e pronto a scrivere storie inedite. Un Allen più che mai in forma con un film che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come consigliabile e problematico con forte presenza di umorismo e di ironia.

Utilizzazione:

il film è da utilizzare in programmazione ordinaria e in molte successive occasioni perché permette l’approccio ad un autore che, a 80 anni, mette in mostra un’ispirazione autentica ed una vena cristallina.

Scarica qui la nostra scheda del film.

Critica:

“Ci sono registi che l’età rende più riflessivi e pacati, come se l’esperienza li consigliasse a prendersi il tempo necessario per il loro film. L’ottantenne Woody fa proprio il contrario. Non solo sgrana un titolo dopo l’altro: pur con i suoi pregi (spirito, romanticismo, ottima équipe, bel cast) ‘Café Society’, più che una storia, sembra il riassunto di una storia. L’impressione è enfatizzata dalla voce narrante che lo traversa tutto, mentre gli episodi si affastellano, tra brevi flashback e drastici tagli temporali. I personaggi sono troppi, con l’effetto di dividere il film quasi in due parti: la love-story di Bobby e Vonnie da una, dall’altra quella della famiglia del ragazzo, piena di tipi coloriti incluso un fratello boss della mala. Come al suo solito – ma anche un po’ di più – Woody inzeppa la narrazione di aforismi e frasi lapidarie, che entreranno di sicuro nei prossimi libri di memorabilia a lui intitolati. (…) Cast ottimo e abbondante nel film più corale che Allen abbia diretto negli ultimi anni; soprattutto quello femminile, con Kristen Stewart, Blake Lively, Parker Posey. Anche a questo proposito, però, una riserva s’impone. Come già parecchi altri attori prima di lui, Jesse Eisenberg è un po’ un alter ego dello stesso Allen, in un personaggio con lo stesso tipo di humour e le stesse titubanze del Woody giovane. Però ha tutt’altro tipo di faccia e non risulta molto credibile quando pronuncia quel tipo di battute (…) che al giovane Woody – bruttino, un po’ imbranato e un po’ sfacciato – venivano invece benissimo.” (Roberto Nepoti, ‘La Repubblica’)

“E ora non dite che Woody Allen fa sempre lo stesso film. Prima o poi ci siamo cascati tutti ed è vero che se sforni un titolo l’anno non sempre sono capolavori. Però con ‘Café Society’ il grande newyorkese torna davvero alla sua forma migliore, quella di grandi film ‘al passato’ come ‘Radio Days’, ‘Zelig’ o ‘La rosa purpurea del Cairo’. E rimescolando il solito mazzo di carte infallibili comunica un senso di rimpianto per un’epoca irripetibile che non sfocia nell’elegia solo perché è e resta una commedia. C’è il jazz, c’è l’America anni 30, c’è una famiglia ebrea soffocante e insieme adorabile (Woody ormai guarda alle cose della vita con la serena indulgenza dei suoi 80 anni), ci sono le trappole del destino e i dilemmi della morale. Insomma il meglio dell’Allen di oggi e di ieri, in un film ambientato 80 anni fa ma più vicino di tanti lavori al presente. Jesse Eisenberg, sempre più sorprendente (…) film tutto sotto-traccia, che lascia intendere sempre più di quanto spieghi. Il tono infatti è brillante. Le conseguenze saranno drammatiche, anche se pochi lo sapranno. Dettaglio chiave: nulla di ciò che accade è di per sé comico, è lo sguardo di Woody, cioè il nostro, a cogliere l’ironia involontaria e a volte tragica delle situazioni. (…) Perché «la vita è una commedia scritta da un sadico», come dice Bobby, e il massimo sadismo è non darle nemmeno un vero finale lasciando ognuno nel suo brodo. È il lato “filosofico” dell’ultimo Allen, esplicito in film come Irrational Man, e sapientemente fuso con l’intreccio in affreschi più ampi come questo. Anche se qui la vicenda centralesi sfrangia in una serie di sottotrame solo apparentemente secondarie. (…) ‘Café Society’ corre verso un epilogo di gusto molto contemporaneo che lascia tutti sospesi sull’orlo dell’abisso, personale e globale (gli anni 30 volgono al termine, la guerra è alle porte). Suprema ironia, questo film sulle Majors di una volta è prodotto da Amazon e dominato da un attore lanciato dal ruolo di Mark Zuckerberg. Ogni film in costume parla del presente.” (Fabio Ferzetti, ‘Il Messaggero’)

“Con ‘Café Society’, Woody Allen ci regala un film (…) che è un puro distillato del suo cinema: amore e nevrosi, New York contro Los Angeles, sguardo ironico-nostalgico sulla mitica Hollywood degli anni Trenta, ritratto umoristico di una tipica famigliona ebraica, etica e compromesso, fede a ateismo, crimini e misfatti. Solo che ora l’ottantenne cineasta sembra affrontare il sempiterno rovello del dubbio e le interne contraddizioni dell’essere (e del non essere) con un più stoico atteggiamento di accettazione. (…) Narrato dalla voce fuori campo di un onnisciente osservatore (nell’originale Woody stesso), il film procede sul filo degli eventi a passo svelto, intonandosi al ritmo swing della colonna sonora; mentre gli interpreti incarnano i personaggi con perfetta misura e Vittorio Storaro gioca sul digitale per imprimere alla fotografia un algido fascino retrò. Si può preferire l’iper-nevrotico battutista degli esordi, oppure il cineasta più equilibrato e complesso della maturità, a questo Allen della terza età che, con piena padronanza formale, riflette sull’imponderabile mistero della vita (e della morte), muovendo i protagonisti come ideali marionette e ricorrendo al motto di spirito per esorcizzare il dramma. Ma ‘Café Society’ è comunque una commedia da non perdere: divertente e amara, leggera e inquietante, suggerisce (per dirla con Svevo) che in fondo la vita non è bella né brutta, ma solo originale.” (Alessandra Levantesi Kezich, ‘La Stampa’)

“(…) ‘Café Society’ è film pensato come un romanzo, scritto (in digitale) con la luce di Vittorio Storaro e un orecchio alle intricale saghe familiari di Isaac Bashevis Singer. (…) Dai bruni e grigi invernali di New York, a una palette di colori vivacissimi e ipersaturi: i turchesi delle piscine (la scena di una festa è stata girata in quella che fu la casa di Dolores del Rio (…), i verdi dei prati perfetti, gli intonaci rosati delle architetture art déco, i marroni profondi dei legni preziosi che foderano gli uffici degli studios… Storaro, affiancato allo scenografo abituale di Allen, Santo Loquasto, spinge l’intensità delle tinte verso la bellezza irreale di un sogno (come aveva fatto parecchi anni fa, in modo totalmente sperimentale, in ‘One From the Heart’, di Francis Ford Coppola). I nomi di Paul Muni, Howard Hawks, Ginger Rogers, Joel Mccrea… aleggiano nell’aria. Ma non si ha l’impressione che tutta questa bellezza sia il sogno di Woody Allen, che «dietro alle quinte» sembrava molto più ispirato in ‘Pallottole su Broadway’ o ‘Broadway Danny Rose’, e che, sul cinema, ci ha dato il sublime ‘La rosa purpurea’ del Cairo. La sua Hollywood emana infatti meno romanticismo di quella ricreata dai fratelli Coen in ‘Ave Cesare’, e meno fascinazione del devastante sottobosco di ‘Mulholland Drive’. (…) Tecnicamente parlando – e lo conferma l’ultima scena, la più emozionante e sentita – ‘Café Society’ è una love story. Ma, dietro alle immagini preziose e al glamour dei suoi sfondi, si intravede un film malinconico sulle scelte della vita, su come le cose avrebbero potuto andare diversamente. Forse è il film che Allen voleva fare, e che – a parte alcuni momenti molto belli – si è perso per la strada.” (Giulia D’Agnolo Vallan, ‘Il Manifesto’)

“Critico contro critico. Di slancio viene subito da dire che «Café Society» presenta un Woody Allen nuovamente in stato di grazia, pienamente a suo agio nel gestire una schermaglia ironica e sentimentale negli Usa anni Trenta e felicemente in sintonia con la scioltezza e l’armonia del cast, la qualità dei dialoghi e la fotografia mirabolante del mitico Storaro. Nello stesso tempo, però, occorre respingere l’assalto dei pensieri impertinenti decisi a convincerci che si tratta di una commedia più raffinata che divertente; la cui elegante effervescenza, cioè, non fa avanzare il plot ma lo riempie fino a esaurirsi nel replay di boutade, quiproquo, stoccate e aforismi portati a compimento se non meglio, più energicamente da molti e molto amati titoli precedenti. Alla fine dell’intimo duello, però, considerando anche l’offerta cinematografica attuale, appare cosa buona e giusta lasciarsi andare al piacere del relax collaudato e alla partitura ricca delle tonalità crepuscolari che non mancano mai al tocco di un artista alieno dalla retorica e il compiacimento di categoria. (…) Sullo sfondo dell’apologo cosparso dalla polverina magica del revival, ma mai rassegnato a farsi cullare dalla banale nostalgia o dal rosario di battute in bilico tra luogo comune e radicato pessimismo (…) fanno via via capolino, con la discrezione cara ai cinefili e forse un po’ impalpabile per lo spettatore svincolato, la grazia di Mankiewicz e Wilder, il glamour degli Astaire, i Flynn e le Garland, lo struggente leitmotiv degli amanti perduti di Scott Fitzgerald, i rapsodici contrappunti del jazz, le scorciatoie fuorvianti delle ortodossie religiose, ideologiche o morali e le cupe premonizioni dell’imminente mattatoio mondiale.” (Valerio Caprara, ‘Il Mattino’)

“Woody scrive e dirige, Storaro fotografa per lui ed è subito magia. Di quella maiuscola del cinema-nel-cinema composto da lustrini e pistole, da risate e lacrime, da superficialità e dalla profonda alienazione di chi superficiale non sa essere. II nuovo immaginifico capitolo della possente filmografia di Allen (…) ha (ri)generato il romanzo di un’America dolcemente schizofrenica, un Paese ancora in età adolescenziale posseduto dalle chimere dell’apparire ma spaventato dai (propri) impulsi a sopraffare. (…) Note a margine: Stewart sempre più bella e brava, Eisenberg sempre più suo alterego, anche fisiognomicamente.” (Anna Maria Pasetti, ‘Il Fatto Quotidiano’)

“Woody Allen ha una grandissima capacità, comune a pochi autori: nei suoi film, gira e rigira, ci infila sempre gli stessi temi, ma, ogni volta, spiazzandoti per la sua peculiarità di farli apparire come nuovi, inediti, irresistibili. Quante battute avete sentito, ad esempio, nelle precedenti pellicole, sulla religione ebraica? Eppure, anche in questo ‘Café Society’ si ride non poco con i siparietti dei genitori ebrei del protagonista, in particolare quando toccano il tema dell’aldilà, trattando, con sarcasmo, alcuni pilastri di questa religione. Insomma, il solito Woody, ma in grande forma, che utilizza il Bobby del film, come suo evidente alter ego, attribuendogli frasi filosofeggianti del tipo: «La vita è una commedia scritta da un sadico commediografo». Beneficiando, e molto, della fotografia incantevole del premio Oscar Vittorio Storaro. (…) superbo Jesse Eisenberg (…) finalmente, convincente Kristen Stewart (…) bellissima la scena finale di Capodanno (…). Non tutto è perfetto, ma avercene di film cosi.” (Maurizio Acerbi, ‘Il Giornale’)

“Piacerà a chi dal Woody giustamente non chiede più miracoli (e come potrebbe? Gli anni sono 81) ma solo decenti passi di un onorevole tramonto. Questo è decente. Come sempre capita ad Allen quando va alla ricerca del cinema perduto. In questo caso la Warner dei Thirties, sontuosamente rievocata dalla fotografia di Storaro.” (Giorgio Carbone, ‘Libero’)

“Gli anni evidentemente portano bene. A ottanta suonati, Woody Allen è ancora capace di regalarci un’opera deliziosa e intelligente come questo ‘Café Society’, acidulo omaggio al mondo del cinema di una volta e insieme malinconica riflessione sui tormenti d’amore, tenuti insieme dal suo solito sferzante umorismo. Certo, l’età gli impedisce di essere ancora il protagonista fisico dei suoi film (questa volta è Jesse Eisenberg che interpreta il suo alter ego), ma che sia sempre e solo sua l’anima che vivifica il film è incontestabile. Oltre al fatto che la voce fuori campo che ogni tanto spiega e commenta i fatti, nell’edizione originale è proprio quella di Woody Allen (doppiata nella versione italiana da Leo Gullotta). E la presenza di questa voce «narrante» permette di sottolineare la prima caratteristica del film, quella di essere costruito in maniera romanzesca, quasi come un libro d’antan, con le libertà che solo un romanzo può concedersi (salti temporali, pause descrittive, improvvisi cambi di prospettiva, arresti su un carattere o un personaggio «minore») che appunto solo l’esistenza di un narratore onnisciente può permettersi di legare e tenere insieme, mentre lo spettatore si fa affascinare dal flusso del racconto. (….) Questa materia così romanzesca e appassionante permette al regista di legare insieme due dei temi su cui più ha ragionato e sceneggiato: da una parte, la diffidenza verso il mondo del cinema di Hollywood, di cui non condivide arrivismo, superficialità e falsi sorrisi (pur amando, e molto, i film che riusciva a fare) e, dall’altra parte, l’«inevitabile» malinconia che si accompagna all’amore, la cui ricerca finisce spesso per trasformarsi in una felicità claudicante, mai davvero piena e goduta. E che prende la forma di quel velo di tristezza, a volte più forte a volte più esile, che la regia fa leggere sui volti di Eisenberg e della Stewart mentre la fotografia «dorata» di Vittorio Storaro (per la prima volta chiamato da Allen per un suo film) ne accentua l’effetto per contrasto. Affidando alla (commovente) dissolvenza incrociata tra i volti dei due protagonisti che chiude il film di suggellare la storia con la dolcezza e la tenerezza che spesso hanno caratterizzato i suoi eroi. Certo, il film non affronta temi inediti e nel passato del regista ci sono titoli che hanno già trattato questi argomenti, ma qui lo fa con una leggerezza e una gentilezza di tocco affascinanti e coinvolgenti, capaci di trasmettere allo spettatore quella particolare sensazione «alleniana» che ti permette di uscire dal film felice e pacificato. Con l’intelligenza e con il cinema.” (Paolo Mereghetti, ‘Corriere della Sera’)

“(…) piccola commedia dal retrogusto amaro illuminata dalle luci calde di Vittorio Storaro, punteggiata da una bella musica jazz e ambientata tra la New York e la Hollywood d’oro degli anni Trenta (…). Quella raccontata da Woody Allen però non è una storia sui soliti banali triangoli, su bugie e tradimenti. L’ottantenne regista newyorkese, che ormai alterna con precisione quasi scientifica film più neri e pessimisti con quelli più leggeri e romantici, si interroga con malinconia sulle occasioni perdute, su una felicità che caparbiamente inseguita continua a sfuggirci di mano, sull’amore mal riposto, sul rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato, sulla dolce nostalgia per qualcosa di bello che abbiamo assaporato e non abbiamo saputo conservare. E lo struggente finale suggella la forza di emozioni inafferrabili, ma incapaci di abbandonarci. Niente di nuovo, intendiamoci, nell’universo Allen, eppure questo prolifico regista dimostra ogni volta di saper rimpastare materiali a lui familiari per confezionare storie che lasciano il segno, complice anche un manipolo di attori che sotto la sua direzione riescono ad esprimere il meglio di se stessi.” (Alessandra De Luca, ‘Avvenire’)

“Racchiuso nella durata aurea di 96 minuti, girato in digitale con una fotografia molto ‘arancione’ di Vittorio Storaro, costruito come una commedia romantica con fughe nella farsa yiddish, ‘Café Society’ potrebbe sembrare un piccolo film ma abbiamo il forte sospetto che non lo sia. I temi che Woody Allen mette in campo sono quelli di tutta una vita. Punto prima: Los Angeles vs New York. Il film è un andirivieni tra le due anime dell’America, e si sa per chi fa il tifo Woody, ma la visione di Hollywood come una giungla popolata di belve pronte a divorarsi si incrocia con la memoria agrodolce del meraviglioso cinema che quelle stesse belve sapevano creare. Punto secondo: il rimpianto per il grande amore che poteva essere e non è stato. (…) Punto terza l’identità ebraica. Gli ebrei hanno fatto Hollywood, ma sono stati anche gangsters in quel di New York (Sergio Leone docet), il loro misticismo si accompagna a una visione dura e pragmatica dell’esistenza. Non credono nel paradiso ma sono pronti a comprarselo (Woody AIlen docet). ‘Café Society’ non è perfetto: Jesse Eisenberg e Kristen Stewart non hanno né il talento né il carisma che richiederebbero i loro personaggi, Steve Carell è fuori ruolo – ma sono perfetti i comprimari, è efficace la ricostruzione d’epoca, è beffarda e struggente la rievocazione della Hollywood degli anni 30. Lo ricorderemo, un giorno, come uno dei film in cui Woody Allen ha messo in scena il suo ironico e disperato senso della vita.” (Alberto Crespi, ‘L’Unità’)

“‘Café Society’ è un Woody Allen rétro, ma di quelli in cui il sentimento della vita è meno cinico e nero. (…) Dapprima il film sembra non sapere che strada prendere, e gioca sul sicuro tra gag e intrecci sentimentali (le parti sulla famiglia ebrea di Bobby sono irresistibili ). Una novità è la luce, quasi protagonista, affidata per la prima volta alle cure del nostro Vittorio Storaro: più bianca e netta a New York, dorata e arancio per Hollywood, quasi in un ironico eterno tramonto. E poi Allen inquadra le donne come nessuno: qui Kirsten Stewart, abbigliata dalla costumista Suzy Benzinger e incorniciata in primi piani adoranti, come vista attraverso gli occhi di Bobby. Poi il progetto prende corpo, il tono si precisa: e se non siamo al livello di un capolavoro come ‘Blue Jasmine’, questo Allen è uno dei migliori degli ultimi tempi. La polarità tra New York e Hollywood, i destini e le illusioni perdute dei personaggi sullo sfondo del vacuo mondo del cinema o della café society, fanno pensare a Scott Fitzgerald, a un incontro ideale tra ‘Il grandeGatsby’ e ‘Gli ultimi fuochi’. Ma con più malinconia che tragedia: come forse è giusto per un regista di 80 anni, che ambienta la storia all’epoca in cui era appena nato.” (Emiliano Morreale, ‘La Repubblica’)

“(…) ‘Café Society’ è il solito Woody, un espresso di esistenzialismo amaro, humour ebraico, malinconia irredimibile. (…) Allen resta Allen: ‘Café Society’ non sposta di una virgola il senso e il valore della filmografia di Woody (…). Un nuovo, ovvero il solito, film di Allen è rassicurante, perfino ansiolitico: dal 2010 a oggi, ne ha fatto uno all’anno, brutti (‘Magic in the Moonlight’, ‘Irrational Man’, ‘Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni’), belli (‘Midnight in Paris’, ‘Blue Jasmine’) o bruttissimi (‘To Rome with Love’) poco importa. E ‘Café Society’ com’è? Piacevole, fresco, ma – nonostante costumi e scenografie ottimi – non perfettamente aderente all’epoca, ha buoni interpreti e, soprattutto, una grande fotografia, che fa palpitare le immagini, dallo skyline di New York ai primi piani delle bellissime Kristen Stewart e Blake Lively.” (Federico Pontiggia, ‘Il Fatto Quotidiano’)

“Ogni anno, il regista di ‘Manhattan’ gira un film e bisognerà ormai ammettere che esiste un «effetto Allen» così come c’era un «effetto Lubitsch», quell’insieme indefinibile che si riconosce al primo istante, fatto di piccole cose che lo contraddistinguono, una musica, un’inquadratura, un ritmo nei dialoghi. ‘Café Society’ ne è la più classica delle dimostrazioni: tutto gira alla perfezione nell’ora e mezzo canonica con cui i suoi film sono costruiti, sapiente montaggio di storie che si intrecciano. (…) Kristen Stewart è deliziosa nei suoi rossori e nelle sue gonnelline, Jesse Eisenberg incarna al meglio quel miscuglio di inadeguatezza mista a un’alta considerazione di se stesso che è tipica degli «eroi» di Allen, così come di Allen stesso, la luce della fotografia di Vittorio Storaro illumina dolcemente volti e luoghi e accompagna il dipanarsi della storia.” (Stenio Solinas, ‘Il Giornale’)

“È il Woody Allen che ti aspetti e che invece riesce sempre e comunque a sorprendere: l’amata New York a fare da sfondo, il suo rispecchiamento (anche geografico, essendo situata al capo opposto del Paese) nella Hollywood del cinema, l’amata musica jazz a fare da discreto sottofondo: l’universo alleniano, insomma, come ce lo aspettiamo. E come l’autore di «Manhattan» continua a coltivarlo tenacemente con alcune piccole varianti, su uno spartito che in fondo racconta sempre una cosa sola: la vita. Così com’è. Gli ingredienti sono l’amore e il caso, il cinema e la vita e le scelte che questa inevitabilmente alla fine ci impone di prendere. (…) Supportato da un testo che è davvero formidabile (…) e che non rinuncia alle sue celebri e caustiche battute (…), splendidamente fotografato da Vittorio Storaro, «Café Society» è una riflessione agrodolce sull’amore, sulla vita e, in ultima sintesi, sul cinema.” (Andrea Frambrosi, ‘L’Eco di Bergamo’)