Cine 4 – Empire of light

Cine 4 – Empire of light

  • mercoledì 7 giugno 2023 ore 21
  • giovedì 8 giugno 2023 ore 15.30 e 21
  • venerdì 9 giugno 2023 ore 21

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  • 2023 – Premio Oscar: Candidatura per la migliore fotografia a Roger Deakins
  • 2023 – Golden GlobeCandidatura per la migliore attrice in un film drammatico a Olivia Colman
  • 2023 – British Academy Film Awards: Candidatura per il miglior film britannico, Candidatura per il miglior attore non protagonista a Micheal Ward, Candidatura per la migliore fotografia a Roger Deakins
  • 2023 – Critics’ Choice AwardsCandidatura per la miglior fotografia a Roger Deakins
  • 2023 – Satellite AwardCandidatura per la migliore fotografia a Roger Deakins, Candidatura per i migliori costumi a Alexandra Byrne
Genere: Drammatico, Sentimentale
Regia: Sam Mendes
Interpreti: Olivia Colman (Hilary ), Micheal Ward (Stephen ), Colin Firth (Mr. Ellis ), Toby Jones (Norman), Tom Brooke (Neil), Tanya Moodie (Delia, madre di Stephen), Hannah Onslow (Janine), Crystal Clarke (Ruby)
Nazionalità: Regno Unito / USA
Distribuzione: Searchlight Pictures, Walt Disney Studios Motion Pictures
Anno di uscita: 2022
Data uscita Italia 2 marzo 2023
Soggetto: Sam Mendes
Sceneggiatura: Sam Mendes
Fotografia: Roger Deakins
Montaggio: Lee Smith
Musiche: Trent Reznor, Atticus Ross
Scenografia: Mark Tildesley
Durata: 119’
Produzione: Sam Mendes, Pippa Harris. Casa di produzione: Neal Street Productions, Searchlight Pictures
Tematiche: Amicizia, Amore-Sentimenti, Arte, Cinema nel cinema, cinema/storia, Disabilità, Dolore, Donna, Educazione, Famiglia, Famiglia – genitori figli, Lavoro, Malattia, Musica, Politica-Società, Povertà, Psicologia, Razzismo, Solidarietà
Valutazione: Complesso, Problematico, Adatto per dibattiti

Soggetto:

Contea del Kent, 1980-81. Nella cittadina costiera di Margate è situato lo storico Cinema Empire, punto di ritrovo della comunità. Diretto dall’ambizioso Mr. Ellis, l’Empire è animato da un gruppo operoso di dipendenti. Tra loro Hilary, la vice di Mr. Ellis, una donna silenziosa e gentile, chiamata a governare un complicato disturbo bipolare, e lo schivo proiezionista Norman. Sul finire dell’anno viene assunto il ventenne Stephen, ragazzo di colore appassionato di musica che aspira a una borsa di studio per l’università. Tra Hilary e Stephen nasce subito un’intesa, una tenera attrazione: sono due outsider che fronteggiano rigurgiti di razzismo e demoni interiori. E il Cinema Empire rappresenta per loro, come per tutti gli affezionati spettatori, un rifugio sicuro…

Valutazione Pastorale:

“Il lockdown è stato un periodo pieno di intense riflessioni personali per tutti noi. Ognuno di noi si è trovato a riesaminare la propria vita. E per me, questo significava fare i conti con alcuni ricordi con cui stavo lottando fin dall’infanzia”. Così il Premio Oscar Sam Mendes – tra i suoi titoli “American Beauty” (1999), “Era mio padre” (2002), “Skyfall” (2012), “Spectre” (2015) e “1917” (2019) – descrive la genesi del suo film probabilmente più personale “Empire of Light”, legato alle maglie dei suoi ricordi, tra sfondo politico, sociale e culturale dell’Inghilterra di inizio anni ’80. Candidato agli imminenti Premi Oscar per la migliore fotografia di Roger Deakins, “Empire of Light” è un intenso e dolce omaggio a quella stagione della vita del regista, ma soprattutto al cinema, alla sua storia e ai suoi protagonisti. Mendes ha firmato il suo “Nuovo Cinema Paradiso”, allargando lo sguardo alla condizione degli ultimi. “Empire of Light” non è un’opera che si mette subito a fuoco. Sulle prime può sembrare un omaggio al potere dell’immagine, al cinema tra Storia e luoghi di riferimento, soprattutto per i continui rimandi ai classici del tempo, ai divi della settima arte, con quella fascinazione sognante che ricorda tanto l’opera di Giuseppe Tornatore. Sotto questo profilo, due sequenze in evidenza: la prima quando Stephen entra finalmente nella cabina di proiezione, nel regno di Norman, scoprendo i segreti dell’illusione cinematografica. La seconda, quando su consiglio di Stephen Hilary si abbandona alla visione di un film, da sola nel buio della sala, al termine di una giornata lavorativa. La magia e lo spaesamento che si leggono sui suoi occhi regalano una vibrante emozione. “Empire of Light” è poi un intenso spaccato sociale, una fotografia dell’Inghilterra negli anni del governo di Margaret Thatcher, tra tensioni, scontri e musica di rottura. È un periodo in cui il cinema inizia ad avvertire i primi cambiamenti, gli scricchioli di un’attività – l’esercizio cinematografico – che non stacca più i biglietti di un tempo. Le prime avvisaglie di un terremoto che farà sentire però le sue scosse più avanti. In tutto questo, Mendes elegge come protagonisti, come figure di riferimento, due “ultimi”: Hilary, che vive giornate altalenanti, grigie, sotto i colpi inclementi di un disturbo bipolare che non le dà tregua, e Stephen, che sogna un futuro diverso all’università, ma sempre più spesso viene strattonato dentro una realtà dura e respingente, dove il colore della pelle rappresenta ancora un problema. Il regista firma un film intenso e poetico, che oscilla tra il dramma personale e la magia del cinema; forse non tutto torna qua e là nell’andamento del racconto, ma poco importa: la storia ha una sua indubbia densità, forza narrativa, illuminata da protagonisti in parte, su tutti Olivia Colman. Immensa. A questo si aggiungono sia la suggestiva ed elegante fotografia di Roger Deakins sia le magnifiche musiche composte dal duo da Oscar Trent Reznor e Atticus Ross. “Empire of Light” è un film che conquista, delicato e struggente rimane addosso al termine della proiezione. Complesso, problematico, per dibattiti.

Utilizzazione:

Indicato per la programmazione ordinaria e per successive occasioni di dibattito.

Critica:

Nessuno si salva da solo. Lo sappiamo bene, in fondo, e magari abbiamo imparato come un mantra quest’espressione che non fa altro che ricordarci che la salvezza viene sempre da un “altro”. Lo sanno anche i protagonisti di “Empire of Light”, l’ultimo film di Sam Mendes (“1917”, “Revolutionary Road”, “Era mio padre”, “American Life”, “American Beauty”, tanto per menzionare alcuni titoli), sceneggiatore, regista e produttore, che ha voluto mettere in scena una storia, ispirata ai propri ricordi, ambientata negli anni Ottanta sulla costa inglese. In una cittadina del Kent si affaccia sul mare il cinema Empire (altro vero protagonista!), luogo di incontro tra Hilary (Olivia Colman, scelta dopo il suo ruolo in “The Crown”) e Stephen (Micheal Ward II, attore emergente). La prima è vicedirettore della sala. È fedele al proprio lavoro, ma delusa nelle aspettative, ferita dalla vita e spenta nell’animo. Il secondo è la nuova “maschera”, un giovane afro, alla ricerca del proprio posto nel mondo, vittima delle tensioni razziali del tempo, ma carico di sogni. Tra i due esploderà un affetto inaspettato che attraverserà le loro esistenze, tra momenti di gioia e dolore, lasciando tracce di speranza e occasioni di nuovi inizi. Un film, dunque, sulle seconde possibilità (i secondi tempi come al cinema), carico di sentimenti (le canzoni utilizzate sono la colonna sonora della vita del regista) nonché di emozioni (troppe?), che a volte si accavallano dentro un racconto apparentemente semplice. In tutto questo c’è dentro l’amore assoluto di Mendes per la settima arte, per quel tempo che fu (l’adorata cabina con la pellicola) e per quello che verrà. Il cinema non potrà mai scomparire. “Quando ho scritto questo film nel tempo della pandemia – ha affermato – c’era anche un’altra ossessione comune: temevamo che il cinema e gli spettacoli teatrali sarebbero morti”. “Empire of Light” diventa così un’esperienza catartica, mentre ci ricorda che “la vita è uno stato mentale”. (Gianluca Bernardini, sdcmilano.it)

Dopo un trittico di film spettacolari (i bondiani Skyfall e Spectre, e il virtuosistico 1917), Sam Mendes ha deciso di riconciliarsi con un cinema più intimo e personale, pur senza sfociare nell’autobiografia, come hanno fatto recentemente molti suoi colleghi, da Cuarón a Spielberg. Empire of Light infatti è ambientato negli anni ’80 e ha come fulcro, sia perché ne è lo sfondo principale, sia perché è uno dei temi cardine dell’intero film, un cinema, quello in cui lavora Hilary (Olivia Colman) e dove – sfidando la relazione clandestina ma noiosa con il proprietario della sala (Colin Firth) – si innamora di Stephen (Micheal Ward), giovane commesso afro-discendente, da cui oltre il colore dell’incarnato la divide anche una notevole differenza d’età. Se fosse un mélo puro, per esempio Lontano dal paradiso di Todd Haynes o il suo prototipo Secondo amore di Douglas Sirk, il film racconterebbe la lotta della coppia contro lo stigma sociale e lo spirito dei tempi, che nell’Inghilterra di quegli anni era venato dal razzismo fomentato da parlamentari come Enoch Powell; invece, quello scritto dallo stesso Mendes, è un film che preferisce tenersi la tormentata storia d’amore come atout da giocarsi nei momenti di stanca, facendo dell’opera un pezzo di ricostruzione ambientale attorno a un preciso luogo, cioè Margate, cittadina costiera nell’estrema punta meridionale della Gran Bretagna, in un preciso momento storico, il 1981, e dentro un preciso contesto sociale, dal quale far emergere l’altro pilastro del racconto di Mendes, ovvero il cinema. A differenza di altre opere contemporanee, come appunto Roma, The Fabelmans o per restare al Regno Unito Belfast di Kenneth Branagh, non è Mendes a mettersi in scena e a svelare il colpo di fulmine per il cinema, anzi i film e la sala sono qui un’ancora di salvezza per i personaggi e, allegoricamente, contro quella fetta di paese che ha scelto il razzismo e l’ignoranza, o il bigottismo ipocrita che forse è pure peggio. Da una parte l’arte popolare e l’emozione, luoghi simbolici in cui poter essere se stessi e amarsi senza paura, dall’altra “il mondo fuori”, che ci opprime e ci costringe a nasconderci: quella di Mendes è una visione romantica della questione, come se il cinema proprio in quanto arte popolare non rispecchiasse quel mondo, non ne fosse eco o conseguenza, però fa parte del gioco di un film pensato per titillare i ricordi e le emozioni di un pubblico di riferimento chiaro. Quello che invece fa meno parte di questo gioco è la forma che il regista gli ha dato, come se avesse intenzione di riesumare i fantasmi decadenti dell’accademia britannica che 40 anni di cinema britannico avevano spazzato via con risolutezza: scrittura scolastica nel procedere della passione, perfetta per garantire a Colman premi e candidature, costruita col bilancino dei ricatti emotivi (non manca la follia), una regia poco sentita, troppo corretta e impostata, ad altezza di emotività senile e con pochissimi tocchi ironici (meno che mai quelli sorprendenti). È uno di quei film per cui si finisce col dire “bravi gli attori (vero), bella la fotografia”: verissimo, perché Roger Deakins (ennesima candidatura all’Oscar) è un maestro e qui, dentro questo film tiepido e prevedibile come un centrino di lana sulla cassettiera della nonna, può far cantare in maniera magnifica le sue immagini, può cullare lo spettatore dentro la bellezza del cinema e delle sue luci. Ecco dov’è l’impero della luce di cui parla il titolo, nel lavoro visuale di un genio del colore e delle ombre cinematografiche, perché se lo cercassimo dentro questo film intessuto di solitudine, repressione e un po’ di mestizia, che fa fatica ad animarsi e ad accendersi come invece vorrebbe, rischieremmo di trovarci delusi. (Emanuele Rauco, La Rivista del Cinematografo)

Molti film hanno fatto di un cinema, inteso come sala, il perno del racconto. Pochi hanno tralasciato lo schermo, il gioco di ombre e riflessi acceso dallo spettacolo, per concentrarsi sul personale del cinema stesso. È quanto fa il sempre eclettico Sam Mendes (da “American Beauty” a “1917” da “Era mio padre” a “Skyfall”). Anche se la prima parola di “Empire of Light” è “popcorn”, solo in extremis vedremo cosa si proietta in quel maestoso palazzo del cinema torreggiante sulle coste inglesi nei primi anni Ottanta. Per il cinema-cinema infatti è iniziata una lunga decadenza. E anche se gli impiegati dell’Empire non sembrano farci caso, tutto, a cominciare dalla fotografia meravigliosa di Roger Deakins, parla di grandezza e nostalgia, ovvero di perdita e rimpianto. Il lungo tramonto delle sale metterà lentamente fine a uno dei più perfetti dispositivi elaborati dalla modernità per avvicinare classi, generazioni, mondi. Un universo reale e fantastico insieme, in cui perdersi e ritrovarsi. Come càpita anche ai protagonisti di Mendes, la matura Hilary (Olivia Colman), direttrice di sala con qualche turba psicologica sulle spalle, e il giovane Stephen (Micheal Ward), studente nero di modi gentili e sfolgorante bellezza, neoassunto in quel piccolo gruppo di anime perse che lavora all’Empire formando una specie di famiglia vicaria. Non è difficile indovinare che Hilary e Stephen, benché così distanti, sono destinati ad avvicinarsi. Con molte complicazioni vista la fragilità di Hilary, la sua relazione segreta col direttore dell’Empire (un infido Colin Firth). E i ricorrenti problemi di Stephen con gli skinheads dell’era Thatcher. Il tutto mirabilmente intrecciato ai luoghi stessi di quel palazzo-labirinto, a partire dal grande salone con pianoforte e vista sul mare, ora frequentato solo dai piccioni. Anche se “Empire of Light” sembra adagiarsi su questa bella intuizione visiva senza mai dare vera vita, malgrado l’eccellenza del cast, a protagonisti e comprimari. Che anziché diventare personaggi di carne e sangue restano sempre un po’ al servizio di Grandi Temi come il Razzismo, l’Intolleranza, il Disagio psichico e sociale. Il tutto percorso da un flusso di echi visivi e sonori anni Ottanta culminante nei grandi cartelloni e nelle (rare) scene estratte da titoli epocali come “I Blues Brothers”, “Oltre il giardino”, “Evita”. Spettacolo sicuramente affascinante – e grande occasione mancata. Zavorrata da un commento musicale (canzoni a parte) imperdonabile. (Fabio Ferzetti, L’Espresso)

Una storia malinconica, commovente e un’ode al cinema. Sam Mendes torna agli anni Ottanta della sua adolescenza per narrare il peso delle relazioni in tempi strani e turbolenti.Hillary è la manager del magnifico Cinema Empire, un salotto Art Deco nella cittadina di Margate, che ha conosciuto tempi migliori quando le sue quattro sale erano tutte attive. (Ada Guglielmino, Cinemonitor.it)

Sam Mendes dirige un film molto personale in cui cerca di trasmettere il suo amore per il cinema, inteso anche come luogo della memoria in cui cercare consolazione dalle insidie del quotidiano. La scritta “trova la luce nell’oscurità” ci avvisa a inizio film; “è materiale prezioso”, dice il proiezionista riferendosi alle bobine dei film. Per immergerci nella nostalgia del suo sentire il regista, anche sceneggiatore, ambienta la vicenda sulla costa settentrionale del Kent, in Inghilterra, nel 1981, dove una multisala cinematografica davanti alla spiaggia svolge la sua funzione di intrattenimento per la comunità locale. (Luca Baroncini, Gli Spietati)

È ancora imperiale nel nome, ma in declino. Nel 1981, a Margate, l’Empire è un cinematografo che ha dovuto però chiudere due delle sue quattro sale. A dirigere è l’appassita Hilary (altro nome antifrastico), reduce da un ricovero ospedaliero che l’ha segnata; deve assumere psicofarmaci, è zelante quanto solitaria e silenziosa; il proprietario Mr. Ellis abusa della sua remissività, ottenendo da lei qualche favore sessuale fuori contratto. (Claudio Fraccari, La Voce di Mantova)

Nel 1980, quando Sam Mendes aveva quindici anni, l’Empire proiettava The blues brothers. Così il regista inglese ricorda all’inizio di Empire of light (Gran Bretagna e Usa, 2022, 115′). Esiste davvero, dal 1935, lo splendido cinema nelle cui sale vivono le storie di Hilary (Olivia Colman, ottima), Stephen (Micheal Ward) e degli altri che vendono i biglietti, puliscono fra le poltrone e stanno in cabina di proiezione. È il Dreamland Cinema di Margate, ed è di fronte al mare. Dopo 1917 (2019) – in cui raccontava non la Storia della Grande Guerra, ma le storie di chi ci soffrì e ci morì, così come a lui le aveva raccontate il nonno -, Mendes torna a immergersi nella memoria, questa volta nella sua. (Roberto Escobar, Il Sole24Ore)

La lieve e potente relazione tra Hilary e Stephen è come una primavera, sboccia sulle rime del – citato – poeta Philip Larkin. I due si conoscono lavorando in un cinema multisala sulla costa meridionale inglese, nel 1980. Lei donna di mezza età dalla salute mentale in bilico, lui giovincello bersaglio di pregiudizi razziali. Fuori monta la violenza skinhead, dentro risplende la grazia delle pellicole, tra le quali sono emblematiche «Nessuno ci può fermare» di Sidney Poitier e «Oltre il giardino» di Hal Ashby. (Paolo Fossati, Giornale di Brescia)

Potremmo per un po’ fare a meno di Olivia Colman? Trovarle una parte comica, o almeno grottesca come in “La favorita” di Yorgos Lanthimos? Con le lacrime ha stancato, anche se perfino Wired Italia – una rivista che parla di nuove tendenze e tecnologie, non di nostalgie sentimentali – loda l’attrice per “il corpo, la voce, la straripante umanità” prestati alla protagonista di questo film. (Mariarosa Mancuso, Il Foglio)

Da quando le grandi piattaforme di streaming si sono imposte sul mercato, sempre più persone preferiscono la comodità di una fruizione domestica, che ha tanti vantaggi, ma anche il difetto di non restituire a pieno la vera magia dell’immersione totalizzante percepibile solo in sala. «Empire of light», l’ultimo film del regista britannico Sam Mendes, si pone in continuità con i precedenti di Sorrentino, Spielberg e Chazelle (rispettivamente «È stata la mano di dio», «The Fabelmans» e «Babylon»), film che, attraverso racconti più o meno autobiografici, omaggiavano il cinema stesso e la potenza della settima arte che da più di un secolo continua ad emozionare il pubblico di tutte le età. (Gloria Sanzogni, La Gazzetta di Parma)

“Empire of Light” di Sam Mendes, uscito ieri nelle sale, è una delusione. Pur avendo una superficie estetica splendida, la sceneggiatura si regge su una storia mai avvincente i cui eventi drammatici si legano in maniera un po’ fasulla. Una nota stonata nella melodiosa filmografia di Mendes (“American Beauty”, “Era mio padre”, “1917” solo per citare alcune opere), imputabile probabilmente al fatto che si tratta del primo film interamente sceneggiato dal regista. Ambientato in una città di mare inglese nei primi anni ’80, “Empire of Light” ha per protagonista Hilary (Olivia Colman), la manager di un cinema che, esattamente come lei, ha visto giorni migliori. (Serena Nannelli, Il Giornale)

Ancora un film sul cinema, come luogo, e sulla fine di un modo di viverlo e di un’epoca. Denso di nostalgia e di affetti laceranti. Il cinema come teatro della vita. Peccato che con “Empire of light” Sam Mendes si confermi uno dei registi più sopravvalutati degli ultimi decenni (a parte “Skyfall”, che è davvero bello, perché Mendes si mette al servizio di 007 e non viceversa). (Adriano De Grandis, Il Gazzettino)

È dolce, è amaro tornare ai vecchi tempi. Soprattutto se sono Momenti di gloria di un’arte che sta passando un presente così così. Seguendo un trend degli ultimi anni – C’era una volta a… Hollywood (Tarantino), Licorice Pizza (Anderson), Babylon (Chazelle) etc – Sam Mendes torna ai tempi in cui il cinema magari non se la passava benissimo ma ancora qualcosa contava, e non lo fa per cullarsi nella memoria autobiografica – o comunque non solo – bensì per svelare le virtù terapeutiche del cinema che possono curare certe patologie personali (depressione) e altrettante patologie sociali (razzismo). (Francesco Bonfanti, Close-up)

Il nuovo film di Sam Mendes, con una Olivia Colman impeccabile (ma anche un po’ prevedibile) nel dar corpo alla fragile e scossa Hilary, è un monumento alla nostalgia del cinema in pellicola, alla retorica della grana, dell’odore, della materia delle immagini, alla rumorosa poesia della cabina di proiezione, al rito della condivisione, all’esperienza, alla magia del cinema. (Chiara Borroni, Cineforum)

Inghilterra, 1981. In una cittadina affacciata sul mare, l’Empire svetta come un faro. È una grande, lussuosa sala cinematografica che ha visto giorni migliori e per sopravvivere ha dovuto chiudere due delle sue quattro sale, ma ancora resiste. Anche se il suo declino è ormai irreversibile, è ancora in grado di illuminare i dintorni, e con le sue luci e il suo calore sembra capace di offrire un riparo non solo agli occasionali spettatori in cerca di qualche ora di svago, ma anche e soprattutto ai suoi dipendenti. (Marina Visentin, Cult Week)

Empire of light sembra il titolo di un film avventuroso. Invece. «l’Impero della luce» non è altro che la sala cinematografica, sempre più in crisi e, ormai, fonte di ispirazione per tutti i registi. Spielberg, Chazelle e ora Sam Mendes, come a voler invocare il «si stava meglio quando si stava peggio» della settima arte, uno sguardo nostalgico sempre rivolto al passato, ai suoi odori e riti, perché questo presente, e ancor più il futuro, è davvero brutto. Una evidente lettera d’amore di Sam Mendes a quella sala, una volta sempre piena, e ora abbandonata dal cinefilo che preferisce il divano di casa. (Alice Sforza, Il Giornale)

È a Margate, cittadina marinara del Kent cara al pittore William Turner, che Sam Mendes ha scelto di ambientare Empire of Light, firmando per la prima volta anche il copione. Il motivo? Nei problemi di fragilità mentale della protagonista ha rispecchiato quelli di sua madre. Ciò detto Hilary (una stratosferica Olivia Colman) è un personaggio di pura invenzione: una donna sola, dolce e manipolabile finché è sotto farmaci e pronta a esplodere fuori controllo quando cessa di assumerli. (Alessandra Levantesi, La Stampa)

Primi anni ’80 a Margate, costa sud-est inglese, echi di Thatcher, razzismo, poeti e punk cattivi: la responsabile del cinema Empire (Colman, lei vale il biglietto) vive tra depressione e qualche felicità tra colleghi. Il declino della sala ha spinto il regista di American Beauty e Skyfall a cercare nella nostalgia un riscatto almeno sentimentale, costringendo un po’ i personaggi a seguire le sue intenzioni. (Silvio Danese, Quotidiano Nazionale)

Nei primi anni ’80 Hilary, una donna alle prese con problemi di salute mentale, gestisce con molta dedizione un vecchio cinema sbiadito in una cittadina costiera dell’Inghilterra. Quando ai dipendenti si aggiunge Stephen, un giovane di origine africana che sogna di fuggire dalla provincia per studiare architettura al college, per la malinconica signora che trascorre le sue giornate al botteghino cambia tutto. (Alessandra De Luca, Avvenire)

Dreamland, terra di sogni. Si chiamava così un parco divertimenti con tanto di sala cinematografica a Margate nel Kent. Una sala sontuosa, in di- suso da tempo. Lì, in quella terra di sogni, Sam Mendes ha deciso di ambientare il suo nuovo film Empire of Light. Un grandioso monumento al cinema, agli strumenti che lo hanno reso possibile e alle persone che ci hanno lavorato. (Antonello Catacchio, Il Manifesto)

La vena malinconica e autobiografica che ha già influenzato Alfonso Cuarón (Roma), Paolo Sorrentino (È stata la mano di Dio), Alejandro González Iñárritu (Bardo) e, da ultimo, Steven Spielbeg (The Fabelmans), pulsa anche per il regista britannico Sam Mendes, nel suo ultimo film “Empire of Light”. Anche per lui, i ricordi intimi e personali si mescolano ad una storia (inventata) di integrazione per trovare “dove giace la luce nell’oscurità”, citazione shakespeariana che campeggia sulla parete del grande foyer dell’Empire, il cinema al centro della narrazione di Mendes, affacciato sulla costa del Kent all’inizio degli anni ’80. (Marco Contino, Il Mattino di Padova)

Sam Mendes firma la sua opera nostalgica sulla sala cinematografica come luogo di una liturgia irreplicabile altrove, un canto d’amore nei confronti di un’esperienza condivisa che l’evolvere dei tempi e delle tecnologie (oltre alla pandemia, ovviamente) hanno messo sempre più in discussione. Lo fa attraverso lo spettro del passato, con un occhio privilegiato ai film della British Renaissance soprattutto quelli antithatcheriani del primo Stephen Frears. (Luca Pacilio, Rumore)

Hilary (Olivia Colman) è responsabile nel cinema Empire, situato nella costa meridionale inglese e gestito dal signor Ellis (Colin Firth). Le sue mansioni riguardano pulire la sala dopo gli spettacoli, vendere i biglietti, controllare gli ingressi degli spettatori, cui vendere occasionalmente anche bibite e pop corn: tutti compiti che svolge diligentemente a fronte di un’esistenza del tutto solitaria. Gli unici legami profondi che ha sono con gli altri dipendenti che lavorano con lei nel cinema, il proiezionista Norman (Toby Jones) e i colleghi Neil (Tom Brooke) e Janine (Hannah Onslow). (Jacopo Russo, Asbury Movies)

Mi sbaglierò, ma ho l’impressione che con “Empire of Light”, nelle sale da giovedì 2 marzo con la Disney, l’inglese Sam Mendes abbia voluto girare, forte del potere contrattuale di cui gode a Hollywood dopo due 007 e “1917”, un film piccolo e personale, fuori moda, forse un po’ autobiografico. Diciamo, molto schematizzando, il suo “Splendor”, che pure resta il film più brutto di Ettore Scola e tuttavia mi pare qua e là citato affettuosamente. La vita esterna vista da dentro una sala cinematografica, che fu gloriosa e ora vivacchia, tra locali chiusi per mancanza di pubblico e riduzione del personale. (Michele Anselmi, Cinemonitor.it)

Empire of Light è una fantasia personale di Sam Mendes (classe 1965) dedicata agli anni della sua formazione. Siamo nel 1981, a Margate, sud-est dell’Inghilterra, in una grande sala cinematografica (l’Empire) che dà lavoro a parecchie persone, dal proprietario al proiezionista ai vari addetti alla gestione di biglietteria e sala. La celebrazione del cinema è duplice, sia in quanto luogo di un’esperienza oggi perduta (ah, la bellezza delle architetture, del proiettore, del fascio di luce), sia come espressione di una cultura, delle sue radici e delle sue tensioni. (Roberto Manassero, Film TV)

Un microcosmo immobile mentre tutto intorno cambia velocemente viene scosso dalle conseguenze dell’incontro tra una donna di mezza età con problemi di salute mentale e un ragazzo nero in cerca della propria strada. Il tutto con l’aiuto della potenza salvifica del cinema. “Empire of Light”, il nuovo film del regista premio Oscar Sam Mendes, esce in sala in Italia il 2 marzo. (Valentina Di Nino, Today)

Inizio anni Ottanta, una cittadina della costa meridionale dell’Inghilterra. L’Empire è l’elegante cinema del luogo, sul cui schermo si avvicendano i grandi film dell’epoca. Tra il foyer e i saloni in disuso scorrono invece le vite di Hilary, la responsabile di sala, e Stephen, un giovane assunto da poco che ha un sogno da realizzare in un difficile presente per il paese. (Alessandro De Simone, Ciak)

Dopo gli ipercinetismi virtuosistici ed effettistici di Skyfall (2012), Spectre (2015) e 1917 (2019), con Empire of Light (2022) Sam Mendes torna alle atmosfere intimiste di Revolutionary Road (2008) e American Life (2010), senza rinunciare alla grandeur della messa in scena e all’opulenza fotografica che ormai sono diventate la sua cifra distintiva. (Fabio Vittorini, Duels.it)

Alla crisi della sala cinematografica come luogo sociale, artistico ed esperienziale, specie dopo l’anno e mezzo abbondante di chiusure e aperture a singhiozzo per la pandemia, si cerca di porre rimedio in ogni modo; l’industria cinematografica, seppur pachidermica in molti casi e sotto l’assalto di giovani e forti nemici come pirateria e piattaforme, sta reagendo comunque meglio dell’industria musicale, violentemente spazzata via, alla digitalizzazione ormai imperante. Probabilmente il modo migliore di perpetuare uno degli indotti caratteristici e fondanti del XX secolo anche nel XXI non è quello di guardare al passato con nostalgia e una lacrima a solcare la guancia, ma il nostalgismo spinto sta eternando il revival degli anni Ottanta facendone una “bubble era” dell’immaginario molto lontana dalla realtà dell’epoca, quindi tutto contribuisce alla causa e tutto è meglio dell’intentato. (Donato D’Elia, Quinlan)

La polvere che passa attraverso la luce e va verso lo schermo. I rumori nella cabina di proiezione con le foto delle star attaccate sulle pareti. Sam Mendes fa un viaggio nostalgico nel proprio passato prima di tutto attraverso la fisicità della sala. La pulizia dopo la proiezione, il bancone dei popcorn e delle bibite, le vetrate d’ingresso, i biglietti staccati agli spettatori. (Simone Emiliani, Sentieri Selvaggi)