Cine4 – La chimera – dal 21/2 al 23/2

La chimera

mercoledì 21 febbraio ore 21:00

giovedì 22 febbraio ore 15:30 e 21:00

venerdì 23 febbraio ore 21:00

acquista il biglietto

 

Regia di Alice Rohrwacher

Con Josh O’Connor, Carol Duarte, Vincenzo Nemolato, Alba Rohrwacher

Genere Drammatico, Italia, 2023 durata 134’

Classificazione età: T

Sinossi:
Ognuno insegue la sua chimera, senza mai riuscire ad afferrarla. Per alcuni è il sogno del guadagno facile, per altri la ricerca di un amore ideale…
Di ritorno in una piccola città sul mar Tirreno, Arthur ritrova la sua sciagurata banda di tombaroli, ladri di corredi etruschi e di meraviglie archeologiche.
Arthur ha un dono che mette al servizio della banda: sente il vuoto.
Il vuoto della terra nella quale si trovano le vestigia di un mondo passato.
Lo stesso vuoto che ha lasciato in lui il ricordo del suo amore perduto, Beniamina.
In un viaggio avventuroso tra vivi e morti, tra boschi e città, tra feste e solitudini, si svolgono i destini intrecciati di questi personaggi, tutti alla ricerca della Chimera.

Trailer:

NOTA DI ALICE ROHRWACHER

un mondo sotterraneo
Nel luogo in cui sono cresciuta capitava spesso di ascoltare storie di segreti
ritrovamenti, di scavi clandestini e di avventure misteriose. Bastava restare in
un bar la sera tardi, o fermarsi in una fraschetta di campagna per sentire di quel
tale che col trattore aveva scoperchiato una tomba villanoviana, o dell’altro che
scavando di notte vicino alla necropoli aveva rinvenuto una collana d’oro così lunga
da poter circondare una casa, e dell’altro ancora che era divenuto ricco, in Svizzera,
vendendo un vaso etrusco che aveva trovato nell’orto.
Storie di scheletri e fantasmi, di fughe e di oscurità.
La vita che mi stava attorno era costituita di più parti: una solare, contemporanea,
affaccendata, e una notturna, misteriosa, segreta. C’erano molti strati, e tutti ne
facevamo esperienza: bastava scavare per pochi centimetri la terra ed ecco che
tra i sassi appariva un frammento di manufatto, fatto da altre mani. Da che epoca
mi stava guardando? Bastava recarsi nelle stalle e nelle cantine dei dintorni per
rendersi conto che quei luoghi erano stati altro, erano forse tombe etrusche,
rifugi d’altre epoche, luoghi sacri. Questa vicinanza tra il sacro e il profano, tra la
morte e la vita, che ha caratterizzato tutti gli anni della mia crescita mi ha sempre
affascinato ed ha dato una misura al mio sguardo. Per questo ho deciso di fare
finalmente un film che racconti questa trama stratificata, questo rapporto tra due
mondi, probabilmente l’ultimo tassello di un trittico su un territorio che si interroga
su una domanda centrale: che cosa fare del passato?
La morte è qualcosa che la nostra società ci impone di affrontare individualmente,
al massimo all’interno di una famiglia. Invece, confrontandomi col passato, vedevo
un’idea della morte integrata nella vita e nella collettività.

poveri tombaroli
La Chimera racconta le vicissitudini di una banda di tombaroli, cioè di profanatori di
tombe etrusche e rivenditori di oggetti antichi a ricettatori locali.
Siamo negli anni ottanta. Coloro che decidono di diventare “tombaroli”, di varcare
quel tacito confine tra il sacro e il violabile, lo fanno per dare una svolta al passato,
per divenire nuovi, altro. Sono indiscussamente uomini, forzuti, giovani, maledetti.
Loro non appartengono al passato, non sono figli dei loro padri che sono cresciuti
vicino a quelle tombe antiche senza mai violarle. Loro sono figli di sé stessi. Il
mondo gli appartiene: possono entrare in luoghi considerati tabù, possono spezzare
i vasi, arraffare offerte votive, commercializzarli. Per loro sono solo anticaglie, cose
vecchie. Non sono più cose sacre.
L’ingenuità di chi ha seppellito quelle cose li fa ridere.
Anzi, si chiedono come sia possibile che un popolo abbia lasciato sotto terra tutte
quelle ricchezze proprio per delle anime… ma quali anime… l’oro se lo vogliono
godere, altrochè!
Gli etruschi hanno dedicato la loro arte, la loro maestranza, le loro risorse all’invisibile.
Per i tombaroli semplicemente l’invisibile non esiste.

trafficanti d’arte o piccoli ingranaggi?
In un mondo dove la grande centrale elettrica è costruita sopra le vestigia di
un santuario, in un mondo profanato, chi sono i profanatori? Il cantastorie che
incontriamo nel film canta “il tombarolo è una goccia nel mare”. E in effetti è così.
La Chimera affronta anche uno dei temi più vasti che hanno riguardato l’Italia e
molti paesi culle di antiche civiltà nel Novecento e soprattutto dal dopoguerra in poi,
che è il mercato delle opere d’arte antiche, il loro traffico illecito, in particolare dei
beni archeologici, aiutato dall’incuria e dall’abbandono dei siti archeologici.
Questo traffico si è affermato in particolare nella zona dell’Etruria, e ha messo radici
tra i giovani di una generazione spinta da un moto di rivalsa che voleva in qualche
modo vendicarsi di una serie di torti subiti socialmente. Volevano guadagnare in un
altro modo, senza padroni, sentivano quasi che i ritrovamenti gli spettassero di diritto
in quanto abitanti di quella zona. Questo diritto non scritto proviene probabilmente
dalla memoria di grandi compagnie di scavo finanziate da privati, come ad esempio
le campagne archeologiche volute da Luciano Bonaparte o dal Re di Svezia, che
marcarono la memoria degli abitanti dell’Etruria.
Eppure questi tombaroli, così fieri del fatto di andare in giro a distruggere antichi siti
archeologici e antiche tombe per ricavare dei soldi, sono in realtà niente altro che
“piccoli ingranaggi”, pedine e vittime di un sistema molto più grande di loro. Pedine
che credono di avere un potere decisionale, ma fanno soltanto gli interessi di un
mercato dell’arte che, almeno negli anni ‘80 e ‘90, era completamente sradicato dal
territorio.
È un traffico che ha dei numeri superiori a quelli del mercato della droga, e che per
decenni in Italia è convenuto molto di più del traffico di sostanze stupefacenti in
quanto si rischiava molto meno: i processi avvenivano in una maniera sommaria e
non per direttissima, ma come dicevano ridendo i tombaroli, “I processi avvengono
per lentissima”.
Ed ecco che questi predatori sono in realtà prede di un mercato dell’arte molto più
grande che li contiene. E Spartaco, il/la ricettatore/trice, con la sua barca sospesa
nel lago e il suo colore giallo oro, ne è uno dei simboli.

Arthur, lo straniero
Protagonista assoluto de La Chimera è Arthur, lo straniero. Abita sulle mura
della città: né dentro né fuori. Viene da un paese non ben identificato, Inghilterra,
Irlanda… Ma forse non è importante, lui stesso non vuole svelarlo. Escluso dal
viavai quotidiano eppure parte determinante della banda che lo ha scelto come
guida e capo, Arthur fa parlare molto di sé.
Arthur è diverso da tutti loro in quanto non appartiene né al territorio né alla banda.
Quello che lui cerca non sono il guadagno, i soldi, l’avventura, ma qualche altra
cosa che è difficile da condividere. Gli piace, è vero, frequentare la banda, subisce
il fascino del paese con le sue feste, le sue luci, i suoi fuochi e quel senso di
comunità che lui non ha mai sentito. È una fascinazione di antica memoria, che
condivide con i tanti giovani che dal nord scendevano in Italia durante il loro Grand
Tour restandone ammaliati. Ma non gli basta.
Come Orfeo che cerca Euridice (l’Orfeo di Monteverdi scandisce i capitoli del film),
così Arthur sente che scavando può trovare qualcosa che ha perduto, fosse la
famosa e tanto cantata “porta dell’aldilà”. E aldilà c’è Beniamina, la donna che ha
perso molti anni prima, la sua radice.
La Chimera è anche una storia di amore, ma che non può risolversi in un amore
individuale. Arthur sente la nostalgia dell’amore, di qualcosa che ci lega agli altri,
la nostalgia di una radice. È il filo rosso di Beniamina? Forse è quella la radice che
rende ogni uomo parte di qualcosa di più grande, di sacro.

visivamente
Abbiamo lavorato con tre formati di pellicola: il 35 mm che si presta all’affresco,
all’iconografia, alla grande pagina illustrata che interrompeva i libri di fiabe, il
super16 mm che ha una densità narrativa e una capacità sintetica senza pari, e che
come una scrittura magica riesce a farci entrare direttamente nel cuore dell’azione,
e il 16mm rubato da una piccola cinepresa amatoriale, come fossero degli appunti
a matita sul bordo di un libro.
Nel racconto de La Chimera ho provato a intrecciare dei fili molto lontani tra di
loro, come in un arazzo d’oriente. Ho provato a giocare con la materia del film,
rallentando, accelerando, cantando, dichiarando e ascoltando. Osservando gli
uccelli in volo, che per gli etruschi rappresentano il nostro destino.
Perché la cosa più importante è, come dentro un caleidoscopio, riuscire a rintracciare
nella storia di un uomo la storia degli uomini, e ritrovarci tutti insieme attorno ad un
film a chiederci che cosa disgraziata e buffa, che cosa commovente e violenta sia
l’umanità.
(Pressbook 01distribution)

Recensione di Leonardo Gregorio – spietati.it

«Piccola Italia Centrale, anni Ottanta. Il sole insegue gli amanti nella Chimera: lo dice Beniamina (Yile Vianello) – quasi ad avvertire una minaccia, una presenza ostinata e contraria, una sventura prossima – ad Arthur (Josh O’Connor), «l’inglese», così lo chiamano, mentre, e chissà dove sono, i due giocano all’amore, ai suoi sguardi, ai suoi occhi. E sembra, il volto di Beniamina, come sfuggito all’inchiesta di Futura, il documentario sui sogni e sulle speranze di gioventù girato su e giù per l’Italia da Alice Rohrwacher con Francesco Munzi e Pietro Marcello prima e durante la pandemia; pare provenire da un quadro sopravvissuto al tempo, da un altro mondo, da un romanzo in versi di Attilio Bertolucci che ne scruta la pelle, il colore. Sembrano, i due (ma è, quello di Arthur, come altri che vedremo nel film, un sogno? un ricordo? una vita passata? inventata?), un’immagine, un fantasma, un compimento fragile di quella frommiana arte di amare per la quale «dare è in se stesso una gioia squisita […] l’amore è una forza che produce amore; l’impotenza è l’incapacità di produrre amore». Arthur è ora un orfano del sentimento, un bambino sperduto diventato adulto lontano dall’Isola che non c’è, se mai c’è stata, un vampiro incapace e malinconico condannato alla sospensione tra i mondi della vita e della morte, del passato e del presente, sotto la terra e in superficie. È un “tombarolo” questo straniero senza patria, senza tempo, senza dèi ma attraversato da spettri, devoto a una mitologia che sa sentire, che sa avvicinare, ma che non sa, che non può, realmente vivere, avvinghiato inerme a una magia che lo ammalia e lo annichilisce. «Gli etruschi hanno dedicato la loro arte, la loro maestranza, le loro risorse all’invisibile. Per i tombaroli semplicemente l’invisibile non esiste», afferma la regista. E dal loro scardinato, rabberciato, immobilistico universo felliniano preda di improvvise accelerazioni da balletto pasoliniano, discendono nei meandri della Storia e delle divinità, si inabissano nella terra, tra i sepolcri di una civiltà perduta, in un’archeologia immortale, sottraendole manufatti, reperti, le meraviglie, ma non l’anima, le anime. Arthur, però, è il corpo estraneo della sua banda, è un rabdomante, calpesta un sottomondo il cui cuore batte con un ritmo che solo lui sa, lui che ha perduto il filo, lui che ha perduto l’amore in questo film che sospende le categorie, facendole galleggiare nella nuvola dell’impalpabilità, del tempo che è e non è nel medesimo istante, che si espande e restringe, respira. È una fiaba, La Chimera; un cantastorie intona le gesta dei ladri, la legge goffamente li insegue, un mercante d’arte di cui nessuno conosce le fattezze quasi ne regge i destini. Anche le partecipazioni di Isabella Rossellini e Alba Rohrwacher, i loro personaggi, come gli altri, sono saltelli del racconto, improbabili verità, bizzarre smarginature. È un‘opera in 35 mm, in 16mm, in super 16 mm: Alice Rohrwacher gioca con il racconto e con l’immagine, con l’incanto e con il lutto attraversandoli con una levità sorprendente, con una nostalgia dal cuore slapstick, quasi una molla, dentro un cinema a nostro avviso pienamente liberatosi per la prima volta da certi obblighi e crismi autorialistici presenti in passato. Arthur è una (in)felicissima fantasia, un uomo fantasticamente assurdo, dinoccolato tra la resa e la rivolta – impossibili entrambe – al reale; l’occhio di Rohrwacher è serafico, la regista guarda il suo protagonista come lo vede Beniamina, il film tiene per mano Arthur, gli sorride ineffabile mentre gli dà le spalle come fa la sposa allo sposo sul Sarcofago, è cinema che danza come l’auleta su un vaso dipinto. Il senso di beato smarrimento che Rohrwacher sa produrre è un innesto, una nuova memoria narrativa, recupero del tempo perduto, del tempo mai avuto. Ci consegna un filo in mano al principio, e insieme la libertà di tenderlo per vedere dove porta oppure di lasciarlo andare e smarrirsi. I tombaroli raccontano che quando si scoperchiano le tombe quel che erano stati corpi, arrivati dai millenni fino all’orlo dei nostri giorni, al contatto con la luce e l’aria, in un istante evaporino. Questa bellezza non è fatta per gli occhi degli uomini – direbbe Arthur -, non più. Questo film, invece, deve ancora incontrare più occhi possibili. E poi evaporare..»