Cine 4 – The Whale

Cine 4 – The Whale

  • mercoledì 31 maggio 2023 ore 21
  • giovedì 1 giugno 2023 ore 15.30 e 21
  • venerdì 2giugno 2023 ore 21

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  • 2023 – Premio Oscar: Miglior attore a Brendan Fraser, Miglior trucco e acconciatura a Adrien Morot, Judy Chin e Anne Marie Bradley, Candidatura per la Miglior attrice non protagonista a Hong Chau
  • 2023 – Golden Globe: Candidatura per il Miglior attore in un film drammatico a Brendan Fraser
  • 2023 – Critics’ Choice AwardsMiglior attore a Brendan Fraser, Candidatura per il Miglior giovane interprete a Sadie Sink, per la Miglior sceneggiatura non originale a Samuel D. Hunter, per il miglior trucco
  • 2022 – Mostra internazionale d’arte cinematografica: Leoncino d’oro. In concorso per il Leone d’oro al Miglior film. In concorso per il Queer Lion
  • 2022 – Toronto International Film FestivalTribute Awards a Brendan Fraser
Genere: Drammatico, Family Drama, Psicologico
Regia: Darren Aronofsky
Interpreti: Brendan Fraser (Charlie), Sadie Sink (Ellie ), Hong Chau (Liz), Samantha Morton (Mary), Ty Simpkins (Thomas)
Nazionalità: USA
Distribuzione: I Wonder Pictures /Unipol Biografilm Collection
Anno di uscita: 2022
Data uscita Italia 23 febbraio 2023
Soggetto: dall’opera teatrale di Samuel D. Hunter
Sceneggiatura: Samuel D. Hunter
Fotografia: Matthew Libatique
Montaggio: Andrew Weisblum
Musiche: Rob Simonsen
Durata: 117’
Produzione: Darren Aronofsky, Jeremy Dawson, Ari Handel, Tyson Bidner, Scott Franklin. Casa di produzione: A24, Protozoa Pictures
Tematiche: Adolescenza, Amicizia, Amore-Sentimenti, Cibo, Dialogo, Dolore, Donna, Educazione, Famiglia, Famiglia – genitori figli, Fede, Internet, Malattia, Matrimonio – coppia, Media, Metafore del nostro tempo, Morte, Omosessualità, Politica-Società, Scuola, Solidarietà, Tematiche religiose
Valutazione: Complesso, Problematico, Adatto per dibattiti

Soggetto:

Tratto dall’opera teatrale di Samuel D. Hunter, la storia di un professore d’inglese che soffre di grave obesità e tenta di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente per cercare un’ultima possibilità di riscatto.

Valutazione Pastorale:

Ciò che amo di ‘The Whale’ è il suo invito a trovare l’umanità in personaggi che non sono né totalmente buoni né totalmente cattivi che vivono nella zona grigia in cui ci troviamo tutti e che hanno delle vite interiori estremamente ricche e intricate”. Così il regista Darren Aronofsky presentando il suo ultimo film, che aggiunge: si tratta di personaggi che “hanno tutti commesso degli errori, ma li accomunano un cuore enorme e il desiderio di amare anche quando gli altri sembrano rifiutare l’amore. È una storia che si pone una domanda semplice ma fondamentale: possiamo salvarci a vicenda? È un tema cruciale oggigiorno, specialmente perché sembra che sempre più spesso le persone tendano a non guardare l’altro e a voltargli le spalle”. L’autore statunitense in venticinque anni di carriera ha firmato otto film, opere dalla marcata forza narrativa, oscillanti tra toni disturbanti, poetici e spirituali. Tra questi: “The Wrestler” (2008, Leone d’oro), “Il cigno nero” (2010) e “Noah” (2014). Con “The Whale” è tornato per la quinta volta in Concorso alla Mostra del Cinema della Biennale di Venezia e ora è in gara per gli imminenti Academy Awards in tre categorie: attore protagonista, attrice non protagonista e trucco-acconciatura. L’opera prende le mosse dal copione teatrale scritto da Samuel D. Hunter, che ne firma anche l’adattamento cinematografico. La storia. Stati Uniti, oggi. Charlie (Brendan Fraser) è un cinquantenne professore di Letteratura, chiuso da tempo in casa, in solitudine, obeso e con problemi di deambulazione. Dà lezioni ai suoi studenti da remoto, attraverso piattaforme streaming, tenendo però la webcam sempre disattivata per non farsi vedere. Charlie ha un rapporto malsano con il cibo: lo usa in chiave punitiva, autodistruttiva, per anestetizzare i sensi di colpa e il dolore per la morte del suo compagno. Quando la sua amica infermiera Liz (Hong Chau) lo avverte che i suoi parametri vitali sono al limite, l’uomo capisce di dover recuperare il rapporto con la figlia adolescente Ellie (Sadie Sink, attrice rivelazione di “Stranger Things”), che non vede dalla prima infanzia… Non è facile accostarsi a “The Whale”, come del resto a tutti i film di Aronofsky. L’autore usa il graffio, una certa “ferocia”, per declinare temi delicati e profondi come l’amore genitoriale, la famiglia, la ricerca di sé, le istanze spirituali, il confronto con la fede e l’Aldilà. In “The Whale” assistiamo a un tortuoso viaggio dal buio fosco alla luce più abbagliante, quella della speranza. In un ambiente delimitato, l’appartamento claustrofobico di Charlie, si svolge tutta la narrazione (tre stanze, che ricordano molto la messa in scena teatrale). Lì troviamo Charlie dal corpo deformato, come l’imponente creatura di Herman Melville – acuto e coinvolgente è il continuo rimando al romanzo “Moby Dick” –, spiaggiato sul divano incapace di concepire il domani. Quando sente il cuore andare all’impazzata, quando comprende di avere poco tempo, Charlie fa di tutto per ritrovare la figlia, per farsi perdonare. Il dialogo tra i due si era interrotto anni prima, quando l’uomo aveva lasciato la moglie (una sempre incisiva Samantha Morton), dichiarandosi omosessuale. Charlie non si dà pace, tortura il suo corpo, affligge la sua anima, ma tenta un ultimo disperato gesto di riconciliazione: in primis con sua figlia, poi con se stesso, con la propria esistenza. A ben vedere il film, seppure attraversato da correnti agitate e problematiche, emana una luce avvolgente, quella del perdono e della misericordia. “The Whale” sembra così mettere in scena una sorta di moderna “via crucis”, che vira inaspettatamente verso la Grazia, regalando non poca commozione nel passaggio finale. Brendan Fraser offre un’interpretazione di grande intensità e umanità, ritrovando l’incontro con il grande pubblico dopo anni appannati; un’opportunità straordinaria di riscatto come fu quella per Mickey Rourke con “The Wrestler”. Infine, è da rimarcare la regia intensa e livida di Aronofsky, che mette in campo una varietà di sfumature tematico-narrative e introspettive che incalzano lo spettatore, quasi lo strattonano, e in ultimo lo conquistano nella commozione. Plauso anche alle musiche di Rob Simonsen, che compone una colonna sonora lirica vibrante, giocata sull’accostamento tra l’opera letteraria di Melville e il viaggio interiore di Charlie, dalla vertigine alla salvezza. Complesso, problematico, per dibattiti.

Utilizzazione:

Indicato per la programmazione ordinaria, il film è da utilizzare per dibattiti e approfondimenti per i temi che affronta. Per un pubblico adulto.

Critica:

“The Whale”, il nuovo film di Darren Aronofsky, fa venire voglia di essere delle persone più gentili. Ci riesce grazie a Brendan Fraser, l’attore belloccio degli anni 2000 (era l’eroe della celebre saga “La mummia”), messo ai margini nell’ultimo decennio. Ritorna qui con la miglior interpretazione della sua carriera. Dà vita a Charlie, un insegnante di inglese gravemente obeso. Ha una settimana per farsi curare prima che il suo corpo ceda. Lui non ci pensa, vuole trascorrere in casa quelli che ha accettato essere i suoi ultimi giorni accompagnato da una sua amica infermiera, un missionario che ha bussato alla sua porta e sua figlia, Ellie, con cui aveva rotto ogni rapporto. Riusciranno a convincerlo a salvarsi? Come con “The Wrestler”, Aronofsky prende un attore considerato finito (lo fece anche con Mickey Rourke) e costruisce il personaggio intorno al suo carattere. Fraser recita soprattutto con gli occhi sotto un impressionante trucco. Incorniciato nel formato quadrato dell’inquadratura, Charlie è difficile da guardare per il suo corpo a cui non siamo abituati. Si finirà man mano a non riuscire più a togliergli gli occhi di dosso. È un passaggio dall’orribile giudizio estetico in cui tutti cadiamo involontariamente, all’empatia umana permesso proprio dal film. Anche solo per questo meriterebbe di essere “provato” da tutti come se fosse un termometro che misura la nostra capacità di essere persone emotivamente sane. “The Whale” colpisce però per come vada all’estremo in tutto, anche a costo di perdere talvolta l’equilibrio drammatico. Un po’ come il suo protagonista, che sembra un’enorme balena incastrata nella scenografia, la storia si svolge interamente in una casa. Nelle inquadrature prevale il corpo, nella sceneggiatura la poesia. L’incontro tra queste due dimensioni porta al cinema ciò che spesso viene sacrificato per una ricerca artistica e autoriale più elegante, ma spesso fine a se stessa. È un invisibile che qui viene catturato in immagine: l’anima. (Gabriele Lingiardi, sdcmilano.it)

The Whale si regge su un’immagine forte, che si incarna nel corpo attoriale di Brendan Fraser, naturalmente alle prese con il ruolo della vita e principale candidato (annunciato) alla Coppa Volpi a Venezia 79 in procinto della probabilissima volata verso gli Oscar. Nel dare vita – o quel che resta – a un obeso insegnante di corsi online (che non accende mai la telecamera e delega tutto a una voce distesa e persuasiva), recluso in casa sia per questioni fisiche sia per scelta personale, Fraser porta molto del proprio vissuto: la solitudine del divo che si è lasciato andare diventando l’antitesi dell’ideale di bellezza (hollywoodiana) di cui era rappresentante; l’amarezza del tempo perduto; il senso della fine (di una carriera partita in un modo e che si è dovuta per forza reinventare). Le analogie tra realtà e finzione ci sono, ovviamente, e non sorprende che dietro The Whale ci sia Darren Aronofsky, che proprio a Venezia vinse il Leone d’Oro con un film per certi versi affine, The Wrestler. Tuttavia, a differenza dell’interpretazione di Mickey Rourke che trascendeva la recitazione perché raggrumava il sangue effettivamente versato sui ring e scavava nell’autodistruzione quasi in funzione terapeutica, quella del gigantesco Fraser non fa altro che dimostrare la sua sorprendente dimensione drammatica purtroppo sviluppata di rado (Demoni e dei, Non lasciarmi sola, No Sudden Move). In questo senso la sua performance in The Whale è sintomatica di un titolo facilmente allegorico (la dimensione del cetaceo, il riferimento al romanzo di Melville): Fraser sa evidentemente cosa vuol dire sentirsi a disagio in un corpo radicalmente mutato, ma nel lavoro con la tuta protesica (no, non pesa 266 chili come il suo personaggio) dimostra una profondità, una tenacia, una volontà di riscatto che appartengono a un attore sensibile e troppo intelligente per mettere davvero in campo se stesso e il proprio dramma. È come se ci fossero due film: uno è quello di Fraser, che guarda ai grandi interpreti del Metodo e trova in The Whale la grande occasione per restituirsi al cinema d’autore grazie a un personaggio di sicuro impatto; e l’altro è quello di Aronofsky, che cerca invece di spingere il film verso un disturbante teatro della crudeltà. Se apparentemente in questo piccolo lavoro, che rispecchia completamento lo spirito del tempo pandemico (formalmente: pochi interpreti in un piccolo ambiente; sul piano dei contenuti: la deriva dell’isolamento dei fragili), il regista sembra controllarsi più del solito, delegando tutto alla visione sempre più ingombrante del protagonista, è col passare dei minuti che ci sembra chiaro quanto il suo sguardo preferisca il patetismo alla pietà, l’esasperazione al dolore, lo schematismo alla fluidità. The Whale copre cinque, fondamentali, giorni della vita di quest’uomo abbandonato da tutti (a parte un’amica infermiera che si prende cura di lui) che decide, forse presagendo qualcosa, di riallacciare i rapporti con la figlia, un’adolescente arrabbiata col mondo (con lui in primis). E lei accetta di frequentarlo solo per interesse, mentre un giovane missionario della New Life bussa alla porta promettendo la salvezza eterna. Greve e sensazionalistico, è un dramma da camera (l’origine è teatrale) che gira attorno al tema della redenzione, abitato da personaggi che sono figure funzionali, chiuso nella sua malcelata morbosità grottesca. Procede a colpi di metafore e scene madri, sottolineando ogni cosa con scelte e immagini di retorica d’accatto: la reiterazione di un misterioso testo su Moby Dick accompagnato dalle musiche strumentali di Rob Simonsen; l’insistenza sul sibilo come sintomo di morte; la voracità autodistruttiva raccontata con cinismo nascosto sotto la compassione; l’uccello simbolico che viene a mangiare sul davanzale; la pioggia che dilaga tutti i giorni a eccezione del finale programmatico. Dalla sua ha la scorrevolezza narrativa che, perlomeno, gli fa eludere la trappola della noia. (Lorenzo Ciofani, La Rivista del Cinematografo)

Non è una casa, quella in cui vive Charlie. È una caverna, una tana, un covo. Poca luce, aria pesante, odore di secrezioni corporali. Obeso in modo inverosimile, quasi incapace di muoversi e di spostare i suoi 300 Kg nello spazio angusto del suo bilocale, Charlie vive sprofondato in poltrona, si muove a fatica su una sedia a rotelle e comunica con il mondo esterno solo con il computer. È un insegnante di letteratura inglese, ai suoi allievi fa lezione a distanza su Zoom, ma lascia la sua videocamera spenta: sul monitor vediamo le facce dei ragazzi, ma non la sua. Al suo posto c’è un rettangolo vuoto. Un buco nero. Un mistero. Charlie non si fa vedere. Charlie non vuole vedersi. Oscura l’immagine per oscurare se stesso. Charlie vive nel buio. Ha il buio dentro, attorno, sempre. Lo vediamo nella prima sequenza mentre ansima e suda nell’atto di masturbarsi davanti a un video porno: 300 kg di carne flaccida che tremola per i movimenti convulsi del gesto onanistico. Ma poi lo sentiamo anche leggere più volte un passo del Moby Dick di Melville. O lo osserviamo mentre afferra dal cassetto merendine ipercaloriche e le divora con insaziabile avidità. La carta stagnola argentata del packaging delle merendine è una delle poche superfici luccicanti dentro la tana, assieme al monitor del pc e al display dello smartphone. Per il resto, solo due lampade con paralume cilindrico, due appliques alle pareti e un neon sotto i pensili della cucina. Il direttore della fotografia Matthew Libatique (collaboratore abituale del regista Darren Aronofsky, ma dopo anche per Spike Lee e per Bradley Cooper in A Star Is Born) usa una Sony CineAlta Venice per riprendere con pochissima luce, evitando di illuminare il set e ottenendo un’immagine digitale monocroma, volutamente piatta e slavata. Ci si poteva aspettare un’illuminazione fortemente contrastata, quasi espressionista, dentro la tana di Charlie. Invece no. È come se quel corpo disgustoso (per ammissione dello stesso Charlie) e debordante di grasso galleggiasse nello spazio, quasi prigioniero dentro la gabbia dell’inquadratura quadrata, in formato 4:3. Luce oleosa, luce sudaticcia, luce opaca. Senza ombre, senza colori. Penombra perenne. Grigiastra. Livida. Deprimente. È un mondo chiuso, quello in cui Charlie si è rintanato, con due sole aperture verso l’esterno: la finestra sul cui davanzale Charlie lascia cibo per gli uccelli e la porta da cui entrano – sempre avvolti da una luce pallida e malata – le poche persone che fanno visita al protagonista nella sua ultima settimana di vita: la figlia Ellie e l’ex-moglie Mary (lui le ha abbandonate entrambe otto anni prima dopo essersi innamorato di un suo allievo che prima l’ha amato e poi si è suicidato), la sorella del ragazzo morto che ora fa da infermiera a Charlie e un giovane missionario invasato che cerca invano di convertirlo. Uno dopo l’altro entrano nella “caverna” del “mostro”, portano parole, sguardi, ricordi. Ma Charlie dalla sua tana non esce mai se non in un ricorrente inserto mnemonico e al tempo stesso onirico in cui si rivede e si lascia vedere in campo lungo su una spiaggia sulla riva dell’oceano insieme alla figlia bambina, in uno dei rari momenti felici della sua vita. Charlie è ossessionato dal romanzo di Melville Moby Dick. Ne legge e rilegge brani e passaggi. Si identifica. È al tempo stesso il capitano Achab e la balena bianca. È il cacciatore e il cacciato. Dà la caccia a se stesso. È la mente che vuole sopprimere il corpo in cui vive. È il soggetto scisso che ha come unica via per ricomporsi l’autodistruzione. Per questo Charlie mangia. Lo fa di continuo. Ingurgita, inghiotte, divora. Di tutto. Tranci di pizza che galleggiano nell’unto, o hamburger innaffiati di maionese e ketchup. Il regista Aronofsky ha sempre fatto del corpo “invaso” l’ossessione centrale del suo cinema: si pensi anche solo al corpo gonfio di droghe e anfetamine in Requiem for a Dream, al corpo livido di pugni e di suture di Mickey Rourke in The Wrestler, al corpo sformato dalla gravidanza in Madre! o a quello divorato da un’ossessione di perfezione estrema in Il cigno nero. Charlie, con il suo corpo ingombrante, oscuro e deforme, perfino ripugnante in certe inquadrature, con i suoi colpi di tosse, i suoi conati di vomito, le sue sudorazioni continue, e il tremolio della carne flaccida che collassa verso il basso quasi stremata dal suo eccesso di peso, è l’ultima incarnazione di un’anima che combatte con il corpo in cui abita, in preda a una solitudine autodistruttiva che non lascia nessuno spiraglio né di speranza né di salvezza. Brendan Fraser – che, ricordiamolo, era il ginnico eroe di La mummia – ansima sepolto sotto il gigantesco costume prostetico stampato in 3D dal make-up artist Adrien Morat: e lì, quasi atterrito dalla sua mostruosità, lascia filtrare la sua fragilità disperata dagli occhi, dall’avidità della bocca, dal sudore della pelle, dalle vibrazioni della voce. “Non credo che nessuno possa salvare qualcuno”, dice a un certo punto nel film. E anche se non mancano momenti di tenerezza (quando la ex-moglie si rannicchia nella ciccia del suo fianco…), Charlie arranca giorno dopo giorno verso il suo cupio dissolvi nella solitudine più assoluta. Perfino il rider che lo salutava da fuori, sul ballatoio, scappa via quando lo intravede sulla soglia. Così Charlie resta lì, sempre acquattato nella semioscurità. Nell’assenza di luce e di colori. Nell’ingordigia sempre più disgustosa. Sino al finale, così simbolico, così irrealista. Lì, finalmente, Charlie riesce ad alzarsi (per la prima e l’ultima volta). E allora esplode la luce: tutto scompare, lo schermo diventa un quadrato luminoso quasi accecante. Ed è in quella luce, in quel bianco definitivo che sostituisce il rettangolo nero dell’inizio, che Aronofsky si congeda, lasciando ad ognuno di noi la libertà di immaginare la fine. La fine di Charlie. La fine del film. Immenso. Sconvolgente. Illuminante. Straziante. Risolutivo. (Gianni Canova, welovecinema.it)

Chi conosce il cinema di Darren non si aspetterebbe mai da lui un “feel good movie”, un film per stare bene: il cineasta newyorkese ci ha abituati a storie su gente con problemi di dipendenza, di vecchiaia, di solitudine; e neppure questa volta si smentisce. Tutto l’opposto per il protagonista di The Whale, Brendan Fraser, eroe di film sciocchi e infantili come la trilogia La mummia che non avremmo immaginato in una parte difficile come questa (per la quale è candidato all’Oscar come miglior attore protagonista). Incredibilmente deformato dal trucco, Fraser è Charlie, insegnante di inglese enormemente obeso che, dopo la morte dell’amante Alan, si è autorecluso in casa a rimpinzarsi di cibo in modo ossessivo. Le sue lezioni si tengono sul web. ma a telecamere spente, perchè l’uomo non vuole che gli studenti vedano il suo aspetto difforme. Lo può avvicinare soltanto l’infermiera Liz, la quale tenta invano di farlo curare prima che sia troppo tardi. Ma Charlie, oltreché di autodistruzione, è anche alla ricerca di redenzione e, sapendo che gli resta poco da vivere, tenta di riallacciare i rapporti con Ellie, la figlia adolescente che non vede da nove anni. A parte qualche incursione, come quella della ex-moglie e quella. poco significativa, di Thomas, un missionario che vorrebbe salvargli l’anima, tutto l’interesse drammatico è concentrato sul degrado del protagonista, che si muove per la propria casa con sempre maggiore difficoltà e servendosi di una carrozzina. Tratto dal dramma di Samuel D. Hunter, The Whale è il genere di film destinato a turbare e a dividere il pubblico. Intanto per la scelta della patologia di cui soffre il protagonista: una obesità iperbolica che può che generare repulsione, molto meno cinegenica e scontata dell’alcolismo al centro di tanti film sulla depressione. Neppure lo stile claustrofobico di rappresentazione è fatto per rasserenare l’animo dello spettatore, sottolineato dallo “stretto” formato 1:33 dello schermo, con prevalenza di primi piani e luci smorzate. Malgrado qualche difetto (in particolare l’analogia col Moby Dick di Herman Melville, trattata con poca sottigliezza e che alla fine scivola nel melodramma), The Whale si può collocare senza sforzo nel gruppo dei film migliori del discontinuo Aronofsky: assieme a The Wrestler (che richiama alla memoria anche per il protagonista malato e il tentativo di ricucire il rapporto con la figlia) e al Cigno nero piuttosto che al confuso The Fountain -L’albero della vita o al pretenzioso Noah. Glissando sulle polemiche innescate all’uscita americana del film intorno al tema dell’obesità, bisogna riconoscere il sorprendente livello dell’interpretazione di Brendan Fraser, alla cui candidatura all’Oscar si affianca quella di Hong Chau (Liz) come migliore attrice non protagonista. (Roberto Nepoti, La Repubblica)

«Così dunque fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne, per vivere secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete» (Romani, 8:12). Quando Thomas, un ragazzo in fuga dai genitori che finge di essere in missione per conto della New Life Church, si avvicina a Charlie con in mano una Bibbia rossa per recitare queste poche righe, possiamo finalmente leggere nome e cognome del proprietario del libro, dell’uomo che, come nei più grandi capolavori hitchcockiani, viene continuamente evocato senza potersi manifestare, esercitando la sua presenza attraverso l’occultamento della propria immagine. (Pietro Lafiandra, Gli Spietati)

Di cosa parla The Whale, il film per cui Brendan Fraser è tra i possibili candidati agli Oscar nella migliore interpretazione maschile? Di un uomo chiuso in casa che ha deciso di abbandonare il mondo ammazzandosi un po’ alla volta di cibo. Il suo corpo è grasso, sfatto, malato, distrutto da questa ostinata ossessione di obesità mortale. Fine consapevole, perseguita, cercata come calvario, e non come suicidio istantaneo. Non è la prima volta che il regista, Darren Aronofsky, mette al centro il corpo come luogo su cui scrivere le sue storie: anzi, questa scelta attraversa i suoi film, pensiamo a The Wrestler (2008) di cui era magnifico interprete Bruce Willis al suo contrario, il Cigno nero (2011) di perfezione corporea danzante sempre sino alla morte perché in fondo questi corpi ama crocifiggerli, dargli quella sofferenza che come regista può permettersi di assegnargli, privandoli di desiderio, o meglio lasciando coincidere il desiderio con la loro distruzione. (Cristina Piccino, Il Manifesto)

Musa di Aronofsky è da sempre la dismisura, l’eccesso, l’accumulo. A volte gli ispira opere struggenti come “The wrestler”, a volte baracconate pretenziose come “Mother! “. Stavolta il risultato è una via di mezzo, perché tutto è caricato sulle spalle mostruose di quel mostro di bravura che è un Brendan Fraser da Oscar, la “balena” del titolo: un obeso di 250 chili spiaggiato sul divano a tenere lezioni online (ma con la telecamera spenta perché si vergogna di farsi vedere) e a lasciarsi morire mangiando di continuo. (Fabio Canessa, Il Tirreno)

Un cetaceo umano sfatto, flaccido, strisciante tra divani e poltrone. Nella perenne penombra di una casa/caverna la voce del professor Charlie impartisce corsi di scrittura online a telecamera (giocoforza) spenta. Recluso volontario, nessuno deve vederlo: i suoi 266 chili disgustano prima di tutto sé stesso, ma l’autodistruzione procede implacabile tra cartoni, barattoli, stoviglie sporche e altri residui dei suoi incessanti ingozzamenti di cibo spazzatura. Accolto con inconsulto favore alla Mostra di Venezia, “The Whale” sembra la carta d’identità del newyorkese Aronofsky esponente di un cinema che si vorrebbe crudo, disturbante, metamorfico alla maniera di Cronenberg e invece si rivela spesso un mix di morbosità e grottesco in formato oversize. (Valerio Caprara, Il Mattino)

Lezione di scrittura via Zoom, sullo schermo del pc i volti degli studenti, il prof tiene la webcam spenta. Charlie non vuole essere visto perché pesa quasi 300 kg. Vive solo, una donna va a trovarlo ogni giorno, il cuore lo sta mollando ma non intende farsi ricoverare, morire gli va bene. L’unico desiderio rimasto: riconciliarsi con la figlia adolescente, furiosa con lui e col mondo. (Giovanni Guidi Buffarini, Corriere Adriatico)

Fatto apposta per togliere le parole dalla penna del critico. E del comune spettatore. “Grasso” non si può scrivere nei racconti di Roald Dahl, che ha incantato i bambini con gli sporcelli e una bambina super- intelligente che se si annoia tira fuori i superpoteri. Figuriamoci se si può scrivere in una recensione. Ma se il protagonista pesa oltre 200 chili e non riesce a fare un passo? Un recensore americano dice “unhealty” Un italiano traduce il titolo e dice “balena”. (Mariarosa Mancuso, Il Foglio)

Charlie è un insegnante affetto da una grave forma di obesità che impartisce lezioni a distanza a un gruppo di studenti universitari. Le sue giornate trascorrono monotone fino a quando non deciderà di provare a ristabilire un rapporto con la figlia adolescente, che non vede da anni, per tentare di scontare le sue colpe e redimersi definitivamente. A distanza di cinque anni dal precedente e non completamente riuscito “Madre!”, il talentuoso Darren Aronofsky torna dietro la macchina da presa, adattando una pièce di Samuel D. Hunter. (Nicolò Barretta, La Voce di Mantova)

È toccante e conflittuale «The Whale», il nuovo film di Darren Aronofsky, che porta sullo schermo l’omonima piéce teatrale di Samuel D. Hunter, confronto onesto e spietato tra padre e figlia, prima ancora di essere un film sull’orrore della carne, sulla sopraffazione del corpo, carcere deambulante di un’anima in pena. E’ un personaggio estremo, in guerra con sé stesso e con qualcosa da farsi perdonare, il protagonista di «The Whale», un animale morente, la balena (tristemente spiaggiata) del titolo, Moby Dick in attesa del suo Achab, la cui atroce bulimia – risposta autodistruttiva al dolore e alla perdita – lo ha reso un freak, facendogli superare i 260 chili di peso. (Filiberto Molossi, La Gazzetta di Parma)

Una ventata di poesia arriva sullo schermo con le fattezze di un professore obeso e beffato dalla vita interpretato da Brendan Fraser: la storia (scritta per il palcoscenico da Samuel D. Hunter qui autore della sceneggiatura) si svolge tutta in una stanza biblioteca dove Charlie tiene lezioni a distanza di scrittura. “Ulisse e la balena bianca” è il libro che ha ispirato “The whale”. (Maria Lombardo, La Sicilia)

Mai sazio di speranza, di dar voce alle fragilità umane, provando a far riconciliare i suoi personaggi con loro stessi e gli altri. Darren Aronofsky, in questo senso, è uno dei registi che davvero investono nelle storie che raccontano, trasformandole poi in lezioni universali, nelle quali convivono temi, drammi personali, redenzioni, finali a sorpresa. (Andrea Giordano, La Provincia di Como)

Uno dei film più discussi e attesi dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia è protagonista del weekend in sala: stiamo parlando di “The Whale”, nuovo lavoro di Darren Aronofsky con protagonista Brendan Fraser. L’attore interpreta un solitario insegnante, affetto da una grave forma di obesità`, che, negli ultimi giorni della sua vita, cerca di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente, con la quale ha perso i contatti. Tratto da una pièce di Samuel D. Hunter, anche sceneggiatore della pellicola, “The Whale” è un film girato interamente tra le mura domestiche dell’appartamento del protagonista: scandito da capitoli che rappresentano i vari giorni della settimana, il lungometraggio racconta i tentativi di redenzione di un uomo alla fine della sua esistenza. (Andrea Chimento, Il Sole24Ore)

C’è sempre il corpo al centro dei film di Darren Aronofski. Dal fisico dolente del lottatore di “The Wrestler” (Leone d’oro a Venezia nel 2008) alla mutazione della ballerina di danza classica nel torbido “Il cigno nero”. Nel suo nuovo film – “The Whale” – il corpo è quello mastodontico e debordante di Brendan Fraser che interpreta Charlie, un professore ingrassato a dismisura, dopo la traumatica morte del compagno per il quale aveva, molto tempo prima, abbandonato la moglie e una figlia di 8 anni. (Marco Contino, Il Mattino di Padova)

Enorme, infelicissimo, solitario, il corpo deformato dall’obesità, la mente dilaniata dai sensi di colpa, Charlie (Brendan Fraser) è un uomo in bilico sul baratro. Professore di letteratura costretto a insegnare online, si nasconde anche agli occhi dei suoi studenti, tenendo la videocamera spenta e riducendosi a poco a poco in una condizione di quasi totale immobilità. (Marina Visentin, Cult Week)

Se n’è parlato a lungo a ridosso della presentazione veneziana. Un po’ perché il passaggio in Laguna della stellina Max, al secolo Sadie Sink, alla prima vera uscita dopo gli sfarzi di «Stranger Things», ha inevitabilmente attirato gli sguardi di un pubblico molto diverso da quello che di solito frequenta i festival comandati; e un po’ perché l’interpretazione di Brendan Fraser è stata salutata subito come uno degli eventi cinematografici della stagione, con standing ovation sui titoli di coda durata poco meno di quella di fantozziana memoria. (Luca Canini, Brescia Oggi)

Non è assolutamente un regista che passa inosservato, Darren Aronofsky. Già, perché, fin dagli inizi della sua carriera, egli non ha fatto altro che sorprendere, sconvolgere, stupire pubblico e critica grazie alle sue storie “estreme”, spesso rese ancora più incisive da raffinati effetti visivi. Persino la Mostra del Cinema di Venezia (dove il regista, nel 2008, si è aggiudicato il Leone d’Oro per l’ottimo The Wrestler) si è da tempo accorta di lui e spesso si riserva l’onore di mostrare in anteprima i suoi lavori. (Marina Pavido, Asbury Movies)

Solo in una stanza in penombra, indistinguibile tra divani e poltrone, un fumetto disegnato da Robert Crumb, sproporzionato, pizze oversize, barattoli, stoviglie, il professor Charlie si masturba davanti a un video porno. La scena sovraccarica sa anche di spazzatura Pop art. Tra le cose inanimate, il corpo di Brendan Fraser, l’atletico esploratore di La mummia, si muove appena, insaccato nella sua stessa carne. Darren Aronofsky è abituato a farsi odiare alla Mostra di Venezia, dove ha presentato nel 2022 The Whale, in Concorso, e prima, nel 2006, The Fountain, deriso da molti per le sue allucinazioni psichediche. (Mariuccia Ciotta, Film TV)

Darren Aronofsky non è mai stato un regista prolifico con la smania di fare film a tutti i costi e con una certa continuità. Questo perché probabilmente alla quantità ha sempre preferito la qualità e, salvo un paio di passi falsi come quelli registrati con Noah o The Fountain, i risultati gli hanno dato ragione. Lo dimostra una filmografia che ad oggi può contare su soli otto titoli distribuiti produttivamente parlando nell’arco di ventiquattro anni. Tanti sono quelli che separano il folgorante esordio con p – Il teorema del delirio dalla sua ultima fatica dietro la macchina da presa, The Whale, presentata in concorso alla 79ª edizione della Mostra internazionale D’Arte Cinematografica di Venezia e in uscita nelle sale italiane con I Wonder Pictures a partire dal 23 febbraio 2023, che gli è valsa tre candidature agli Oscar, tra cui quella meritatissima andata al redivivo Brendan Fraser come migliore attore protagonista. (Francesco Del Grosso, Cineclandestino)

Charlie è un solitario insegnante di inglese che soffre di obesità grave e il cui tempo sta per volgere al termine. Per questo in cinque giorni di passione, armato solo di un cuore pieno di sentimento e di un intelletto fiero, l’uomo deve confrontarsi con traumi sepolti da tempo e un amore mai rivelato che lo tormentano da anni, riavvicinandosi a una figlia diciassettenne, quasi un’estranea per lui, per un’ultima possibilità di redenzione. Attraverso l’opera teatrale di Samuel D. Hunter, 7he Whale riconduce Darren Aronofsky ai temi a lui più cari come paternità, rimorso, rimpianto, corpi devastati, redenzione, in una straziante odissea negli abissi del dolore, in cerca di salvezza. (Alessandra De Luca, Ciak)

Aronofsky è cineasta più interessante di quanto comunemente non gli si dia atto. Gli si rimprovera il gusto sperimentale e provocatorio; il suo avventurarsi lungo sentieri di difficile accesso con il conforto dei mezzi di Hollywood. Dopo Mother!, senz’altro uno dei suoi film più interessanti, The Whale ci offre l’Aronofsky più seventies, in grado di evocare magnifiche prestazioni dai suoi attori, senza per questo “cadere nelle buche più dure” del manierismo del metodo. (Gioia A. Nazzaro, Rumore)

Un film tanto atteso e tanto discusso quello del regista Darren Aronofsky, che già ha diretto capolavori come Madre! con Jennifer Lawrence nel 2017, Il cigno nero con Natalie Portman nel 2010 e Requiem for a dream nel 2000. Questa volta ha deciso di adattare per il grande schermo l’omonima opera teatrale di Samuel D. Hunter del 2012, trasformandola in un dramma intimo e toccante. (Sara Montini, Today)

Un uomo nella sua poltrona si masturba. Cerca di eccitarsi vedendo un video porno con due uomini che fanno sesso. È una scena malinconica, più che grottesca o volgare. Si nota la solitudine, il buio, le difficoltà respiratorie e, soprattutto, la spropositata obesità del protagonista che denuncia uno stato di salute abbastanza precario. Bussano alla porta. (Mazzino Montinari, Close-up)

L’immagine al nero, webcam disattivata e microfono acceso, solo una voce, profonda e suadente, a dettare la linea inversa di una presenza che visivamente, e ancor più in presenza, sarebbe importante: The Whale di Darren Aronofsky (in concorso a Venezia79) è un film che strutturalmente appartiene a quel corpo bigger than life che contiene Charlie, insegnante di inglese e tutor di scrittura per un corso online, protagonista di una storia in cui è proprio l’assenza, la mancanza, a determinare azioni e reazioni. (Massimo Causo, Duels.it)

Tratto dall’omonimo testo teatrale di Samuel D. Hunter, autore anche della sceneggiatura, The Whale sembra sconfinare verso il piccolo schermo, verso la sitcom. Dall’unico spazio esterno, ovviamente invalicabile, al piccolo gruppo di persone che gravitano nell’appartamento di Charlie, passando per le entrate in scena – teatrali, ma anche irrinunciabile patrimonio comico e\o drammatico delle sitcom – e la natura dei due personaggi che non rientrano nel devastato nucleo familiare (Liz e Thomas), tutti gli elementi del film ci riportano alle situation comedy, che «sono basate sulla rappresentazione dell’interazione emotiva e sociale di un ristretto numero di personaggi immersi in un ambiente familiare e sostanzialmente ordinario, in cui lo spettatore può facilmente immedesimarsi». (Enrico Azzano, Quinlan)

È materia profondamente americana, ma dal respiro universale, quella che Darren Aronofsky ha attinto da una pièce teatrale del giovane drammaturgo Samuel D. Hunter. In «The Whale», nel rispetto dell’unità di spazio – un angusto appartamento in una cittadina dell’Idaho – domina la scena Charlie, docente che tiene corsi di scrittura online dal divano di casa, sul quale è deposto come una balena spiaggiata, con i suoi oltre 200 chili che gli consentono solo pochi, essenziali, movimenti: l’uomo è stato prima sposato; poi, ha vissuto con un compagno fino alla morte di lui, causa principale della sua febbrile bulimia. (Enrico Danesi, Giornale di Brescia)

Se l’applausometro conta qualcosa, “The Whale di Darren Aronofsky è il film finora più apprezzato dai festivalieri, per alcuni dei quali sarebbe già un indiscutibile Leone d’oro. Vedremo. Del resto, Aronofsky è un habitué qui al Lido, prima con Müller e ora con Barbera; nel 2008 il suo “The Wrestler” vinse pure il massimo premio. Stavolta il regista newyorkese s’è rivolto a una pièce teatrale di Samuel D. Hunter, trovando in Brendan Fraser, attore assai gettonato ai tempi di “La mummia”, anche per la sua bellezza, un protagonista perfetto. (Michele Anselmi, Cinemonitor)