Cannes, «Dogman» e «Lazzaro felice» segnali di un cinema fuori dagli schemi

Cannes, «Dogman» e «Lazzaro felice» segnali di un cinema fuori dagli schemi

Né scontati o prevedibili, i film di Alice Rohrwacher e Matteo Garrone sono il segno di una strada verso la rinascita del nostro cinema. In Italia e all’estero

di Paolo Mereghetti (corriere.it)

Due film italiani in concorso, due premi. Non poteva andar meglio (soprattutto se ci confrontiamo con i cugini francesi: quattro film e nessun premio. Paolo Conte avrebbe di che aggiornare i suoi versi su Bartali…). Ma il premio alla sceneggiatura per Alice Rohrwacher e quello al miglior attore per Marcello Fonte non sono solo motivo d’orgoglio nazionale, sono i segnali che un cinema fuori dagli schemi — né «Lazzaro felice» né «Dogman» sono opere scontate o prevedibili — può trovare la strada per una vera rinascita. In Italia e all’estero.

Non aveva un compito facile quest’anno la giuria perché c’erano molti film di qualità, che il palmarès è riuscito a comprendere quasi in toto, ma anche molti film «falsamente belli», che puntavano soprattutto sull’emozione più facile e ricattatoria. E invece Cate Blanchett ha saputo evitare con la sua giuria le tante possibili trappole (Honoré, Gonzales, Hamaguchi, Mitchell, Husson, Shawky), arrivando a creare un inedito «premio speciale» per Jean-Luc Godard che non solo consacra un grande film di ricerca («Le Livre d’image») ma testimonia di uno spirito di apertura verso il nuovo e il futuro che non sempre le giurie sanno dimostrare. Certo, il film della Labaki «Capharnaüm» cerca la commozione dello spettatore con un’insistenza sospetta, tanto che molti sull’onda dell’emotività erano pronti a giurare sulla Palma d’oro per il film libanese, ma aver preferito per i premi più importanti le opere di Kore-eda e di Spike Lee dimostra una indipendenza di giudizio che fa solo onore ai nove giurati. Perché entrambi i film, la Palma d’oro giapponese e il Gran Prix americano, sono la prova di un cinema che cerca di conciliare il percorso d’autore senza cedere ai ricatti di una facile popolarità (pur avendo presente la necessità di dialogare col pubblico) ma anche senza abdicare alla voglia di confrontarsi col mondo reale — in modi più muscolari Spike Lee, in forme più meditate Kore-eda —, entrambi però avendo chiari gli obiettivi cui puntare.

Certo, alla fine di un palmarès resta sempre l’amaro per i bei film dimenticati, quest’anno le opere del russo Kirill Serebrennikov, del cinese Jia Zhang-ke, del francese Stephane Brisé, ma bisogna anche accettare il senso della gara e che i risultati non possano accontentare tutti. A rallegrarsi, comunque, sarà il direttore Thierry Frémaux che quest’anno ha apparecchiato un programma confuso e contradittorio, sostanzialmente sbagliando il calendario delle proiezioni (il film del turco Nuri Bilge Ceylan praticamente sparito dai resoconti critici) e litigando con mezza stampa e tutta Hollywood. I premi di un’ottima giuria sono riusciti a salvare anche la sua faccia.