Alle origini di Frankenstein fra teologia e alchimia

Alle origini di Frankenstein fra teologia e alchimia

Il romanzo di Mary Shelley si ispirò al castello di Frankenstein, in Germania, e a un curioso personaggio che l’abitò, Johann Conrad Dippel. Lo scienziato eretico compiva esperimenti sui morti per trasportare l’anima da un cadavere all’altro.

di Giuseppe O. Longo (*) – tratto da Vita e Pensiero bimestrale di cultura e dibattito dell’Università Cattolica (2-2018)

II romanzo di Mary Shelley Frankenstein, o il moderno Prometeo fu pubblicato la prima volta esattamente due secoli fa, nel 1818. La ricorrenza ha sollecitato un gran numero di articoli che esaminano sotto diversi profili quest ‘opera per moltiversi straordinaria. Qui
vorrei esaminare un aspetto forse poco noto ma che ritengo assai interessante. Il lettore  che per la prima volta si accosti al romanzo si potrebbe chiedere da dove Mary Shelley abbia tratto il nome, invero assai indovinato, del protagonista, Victor Frankenstein: un nome che per le sue sonorità può ispirare timore e anche un vago senso di minaccia. L’ipotesi più plausibile è che esso derivi dal castello di Frankenstein (letteralmente “Pietra dei Franchi”) che, costruito verso il 1250, sorge su una bassa collina alle propaggini della catena boscosa dell’Odenwald, a sud della città tedesca di Darmstadt, in una zona ricca di fortezze e di vigneti lungo la Bergstrasse dell’Assia, che costeggia il Reno.

I boschi dell’Odenwald sono fitti e scuri, segnati da strette Valli immerse nel mistero e ricche di leggende. Intorno al castello di Frankenstein si raccontano storie e saghe popolari, che hanno intessuto la cultura e le tradizioni della regione. Sul monte Ilbes, che si eleva a 417 metri in una zona isolata a sud del fortilizio, le bussole impazziscono per la presenza di ammassi di rocce magnetiche, e ciò attira gli appassionati di fenomeni paranormali, che, in occasioni particolari come la notte di Valpurga o il solstizio d’estate, vi celebrano i loro rituali.

Nel castello di Frankenstein nacque Johann Conrad Dippel (1673-1734), teologo, medico e alchimista. Implicato in diverse diatribe religiose, condusse una vita avventurosa e travagliata, tanto da essere imprigionato per sette anni con l’accusa di eresia. Fu anche bandito da alcuni Paesi, tra cui la Svezia e la Russia, a causa delle sue controverse posizioni dottrinarie. Dedito a ricerche bizzarre, inventò l’olio di Dippel, un estratto di organi animali che vantava come l’elisir di lunga vita alchemico e del quale offri la formula in cambio del castello di Frankenstein, offerta che fu rifiutata. Lavorando con un certo Diesbach, fabbricante di vernici, Dippel usò una miscela del suo olio e di carbonato di potassio per ottenere un pigmento dal colore intensamente azzurro, il blu di Prussia. II nostro fu al centro di strane dicerie: per esempio alcuni sostenevano che compisse esperimenti raccapriccianti con i morti, nel tentativo di dislocare l’anima da un cadavere all’altro. A quel tempo il trasferimento dell’anima tra cadaveri mediante un imbuto era una prassi tentata spesso dagli alchimisti e Dippel sostenne questa possibilità in una dissertazione dal titolo Malattie e rimedi della vita della came: quindi è possibile che anch’egli si desse a queste pratiche, anche se ne mancano prove dirette. È invece appurato che compisse spesso esperimenti di dissezione su animali.

La sua attività di alchimista, documentata nell’opuscolo citato, lo portò, a suo dire, a escogitare un metodo per esorcizzare i demoni mediante una certa pozione ricavata facendo bollire carni e ossa di animali. Secondo alcuni suoi contemporanei, verso la fine della vita, stremato dalle dispute con altri teologi, Dippel perse del tutto la fede e dichiarò che Cristo era un’entità “indifferente”. Da quel momento dedicò tutte le sue energie all’alchimia, e si allestì un laboratorio (col tempo trasformato in una taverna che portava il suo Dome, Dippelshof) non lontano da un altro maniero, il castello di Wittgenstein, che sorge nei dintorni della cittadina di Bad Laasphe, a nord di Darmstadt.

A questo punto le notizie che lo riguardano si fanno vaghe e le sue attività sempre più sospette: fu accusato di furto, sperimentazione sui cadaveri e commercio con il demonio. Conduceva una vita molto riservata e non è escluso che si compiacesse di alimentare lui stesso le dicerie sul suo conto, per esempio di aver venduto, come Faust, l’anima al diavolo in cambio di certi segreti innominabili. Da queste voci traeva profitto poichè, facendosi passare per praticante di magia nera, gli era più facile trovare chi volesse pagare per acquisire le sue conoscenze, compresi l’elisir di lunga vita e la pietra filosofale. Dippel morì nel castello di Wittgenstein, forse per un colpo apoplettico, benchè alcuni contemporanei sospettassero un avvelenamento. Per colmo d’ironia, un anno prima della morte, avvenuta nel 1734 all’età di 61 anni, aveva scritto un opuscolo in cui sosteneva di avere scoperto l’elisir che gli avrebbe consentito di vivere fino a 135 anni.

La villa Diodati e Giovanni Aldini

Si sa che all’origine di Frankenstein si colloca una sfida a scrivere un racconto del terrore, sfida lanciata da Lord Byron nell’estate del 1816 a Percy Bysshe Shelley, Mary Godwin (poi Shelley), Claire Clairmont (sorellastra di Mary) e John Polidori, medico e segretario di Byron. La sfida, oltre che da Mary, fu raccolta da Polidori, che scrisse Il Vampiro, una novella pubblicata nel 1819 e divenuta il capostipite di tutti i libri scritti su queste creature crepuscolari e sanguinarie, compreso il notissimo Dracula di Bram Stoker (1897). L’estate del 1816 fu fredda e piovosa, sicchè i cinque, non potendo fare le escursioni che avevano in animo, passavano gran parte del tempo all’interno della villa Diodati, situata sul lago di Ginevra, che Byron aveva affittato per qualche mese:leggevano, soprattutto storie di fantasmi, e conversavano, in particolare di argomenti che toccavano la vita,la morte e la rianimazione dei cadaveri mediante l’elettricità. A quei tempi era in gran voga il galvanismo e in genere era vivissima la curiosità per la scienza e per le sue applicazioni.

Non stupisce che la diciannovenne Mary fosse suggestionata sia dall’atmosfera della villa e dalle conversazioni che vi si tenevano sia da ciò che si sapeva di un personaggio singolare, Giovanni Aldini, un fisico bolognese nipote di Luigi Galvani. Nel gennaio del 1803 Aldini aveva compiuto a Londra certi esperimenti sul cadavere di un impiccato nella speranza, ovviamente vana, di richiamarlo in vita. All’epoca Mary era una bambina di sei anni, quindi non aveva potuto assistere a questo spettacolo atroce e grottesco, in cui il corpo, percorso dalla corrente generata da una potente pila, si contorceva, tremava, assumeva espressioni di dolore, strabuzzava gli occhi. Ma certo la futura scrittrice ne aveva sentito parlare ed è possibile che nel concepire la figura del protagonista del suo romanzo, Victor Frankenstein, essa abbia preso a modelli Aldini e l’alchimista Dippel e i loro tentativi di rianimazione dei cadaveri. II ricordo delle imprese di Aldini era ancora molto vivo, mentre l’ipotesi di una suggestione dovuta a Dippel fu avanzata in via congetturale in un libro di Radu Florescu, In Search of Frankenstein (1975).

A suffragare l’ipotesi di Florescu sta il fatto che nel 1814 la sedicenne Mary che non era ancora Mary Shelley bensì Mary Wollstonecraft Godwin fece, con il futuro marito Percy Shelley e con la sorellastra Claire Clairmont, un viaggio di cui è rimasta la cronaca, dovuta soprattutto alla penna di Mary: History of a Six Week Tour, pubblicata nel 1817. La cronaca descrive anche un secondo viaggio, compiuto dagli stessi nel 1816 per raggiungere il lago di Ginevra e la famosa villa Diodati. Nel 1814 i tre, partiti i128 luglio da Londra, attraversarono la Francia fino alla Svizzera e di qui, risalendo la Germania lungo il Reno, giunsero in Olanda e salparono per ll’Inghilterra. È probabile che Mary Percy e Claire visitassero il maniero di Frankenstein che era Sulla loro strada, venendo a conoscenza delle storie e leggende che ancora circolavano su Dippel nonostante l’alchimista fosse motto da oltre ottant’anni.

Inoltre Mary e Percy conoscevano alcuni componenti del «Kreis der Empfindsamen» (Circolo dei sensibili) che si riunì a Darmstadt dal 1769 al 1773, scegliendo spesso il castello di Frankenstein come sede delle sue letture pubbliche. È quindi possibile che le leggende su Dippel siano emerse anche nelle conversazioni tra i viaggiatori inglesi e i componenti superstiti del circolo. Si tratta di congetture non verificate, che tuttavia hanno trovato ampia risonanza in molte narrazioni popolari, dove la figura di Victor Frankenstein, della sua mostruosa creatura e dell’alchimista Dippel sono protagonisti di storie che si discostano di poco o di tanto dal romanzo di Mary Resta il fatto che la ricerca delle radici storiche di questo libro straordinario continua, come ancora dopo due secoli, il ricordo del “Moderno Prometeo” e del suo mostro inquieta il nostro immaginario.

Frankenstein e la scienza

Il libro di Mary Shelley ci offre una visione di quelle che potevano essere le implicazioni etiche, morali e religiose della scienza nell’epoca della Rivoluzione industriale, quando ancora la ricerca della conoscenza non era uscita dalle brume dell’alchimia e delle credenze popolari. È vero che l’autrice illustra i pericoli connessi con una ricerca del sapere che ignori la morale e il senso del limite, ma è anche vero che Mary considera la curiosità un tratto inestirpabile dell’uomo. Ci si può dunque chiedere se in Victor Frankenstein la scienza sia uno stravolgimento dell’ordine naturale oppure l’inevitabile espressione del progresso.

La contraddizione non sembra risolta: la creazione del mostro una conquista scientifica straordinaria e insieme un’impresa oltraggiosa che procura terrore e devastazione. Come nel caso della figura mitologica di Prometeo, la hybris del creatore causa una punizione tremenda. Un tema simile si ritrova nel dramma La tragica storia del dottor Faust di Christopher Marlowe (1564-1593): Faust è condannato all’inferno per la sua sfrenata ambizione di tutto sapere. In particolare Frankenstein ha superato i limiti e ha infranto l’ordine della natura creando la vita a prescindere dall’unione di uomo e donna. E inoltre, come chiede Adamo nel Paradiso perduto di Milton, perchè richiamare dal nero sonno («dalle tenebre mie») una creatura destinata a soffrire? Non c’è già abbastanza dolore nel mondo? È un quesito che oggi, nell’epoca in cui sembra che la tecnica possa tutto, ci interroga sempre più da vicino: di qui la grande attualità di Frankenstein.

Victor, inseguendo la sua creatura disgraziata e malvagia per distruggerla, giunge nei pressi del Polo Nord, dove viene raccolto, sfinito, da una nave al comando del capitano Walton, al quale narra la sua impresa temeraria e gravida di sciagure. Walton vorrebbe conoscere i particolari della rianimazione dei morti, ma Victor si rifiuta di fornirglieli e lo ammonisce con queste parole: «Non vi condurrò, avventato ed entusiasta come ero io, alla vostra distruzione e infallibile miseria. Imparate da me, se non dai miei consigli, almeno dal mio esempio quanto sia pericolosa l’acquisizione della conoscenza e quanto è più felice quell’uomo che crede che la sua città natia sia il mondo, di colui che aspira a diventare pin grande di quanto la sua natura gli permetta». È ancora valido questo ammonimento?

 

 

(*) Giuseppe O. Longo è professore emerito di Teoria dell’informazione all’Università di Trieste. Dopo aver contribuito all’introduzione in Italia della teoria dell’informazione e della teoria dei codici algebrici, sta dedicandosi all’epistemologia, l’intelligenza artificaile, la comunicazione e le conseguenze sociali e culturali dello sviluppo tecnico, su cui ha pubblicato, tra l’altro, Il nuovo Golem (1998), Il simbionte (2003) e Homo technologicus (2001, II ed. 2012). Si dedica anche alla narrativa: il suo ultimo libro è Antidecalogo, Dieci racconti (2015).